Interventi di: Domenico Gallo, Giovanni Russo Spena, Associazione Malcolm X
Analisi e commenti di:
In allegato floppy disk: |
NOTA DI AGGIORNAMENTO
Gli interventi contenuti nella pubblicazione fanno riferimento al testo di revisione costituzionale approvato dalla Commissione Bicamerale il 30 giugno 1997. In seguito, tale testo è stato sottoposto ad ulteriore esame da parte della Commissione ed emendato in alcune sue parti. Il riferimento ad alcuni articoli va quindi semplicemente aggiornato alla nuova numerazione del testo emendato. Diverso è il discorso per quanto riguarda l'art. 56, che ad una prima lettura potrebbe apparire profondamente modificato, al tal punto da far ritenere fuori luogo l'intervento che lo analizzava nello specifico.
Ma nonostante queste modifiche, la pubblicazione mantiene intatta tutta la sua attualità. Per tutti i temi trattati, infatti, compreso anche il nuovo articolo 56 (si veda l'intervento contenuto in questa nota di aggiornamento), non vi sono state sostanziali modifiche, dovendosi piuttosto registrare un generale peggioramento del testo licenziato il 30 giugno.
Il nuovo testo, risultante dalla pronuncia della Commissione sugli emendamenti, è contenuto nel floppy-disk allegato alla pubblicazione: NEWPROG.WRI.
Chi parla più dell'art. 56?
A sfumare questa rigidità, fortemente difesa dagli esponenti iperliberisti presenti nella Commissione, c'è stata la nuova formulazione che, però, a ben vedere, per quanto cambi la forma dell'articolo, rischia di non mutarne affatto la sostanza.
Il nuovo articolo è infatti un classico esempio di "politichese" che, se dovesse rimanere così com'è, procurerà non pochi problemi interpretativi ai professionisti del diritto pubblico:
Quali limiti incontrerà il "pubblico" per esercitare le funzioni di cui è titolare di fronte ad un'attività privata adeguatamente svolta?
E quel "nel rispetto delle attività" a cosa fa riferimento?
Forse che sarà inibita, o reindirizzata verso i privati, tutta l'attività pubblica che potrebbe operare in cosiddetto regime di "ineconomicità", ai fini di un interesse pubblico da sostenere, laddove dovesse entrare in concorrenza "sleale" con le attività "adeguatamente" già svolte dai privati non finanziate alla stessa stregua?
Così, tanto per dirne una, come rapportarsi di fronte alla scuola privata "adeguatamente" svolta?
Non si sono forse affievolite un po' troppo in fretta tutte le voci critiche al vecchio articolo 56 ... praticamente riproposto?
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Cosa rimarrà, infatti, della Costituzione del '48 dopo questa "revisione"?
Ben poco; e quel poco andrà nella direzione opposta a quanto era invece auspicabile: pur nell'assenza di un intervento formale sulla Prima Parte della Costituzione, attraverso i meccanismi istituzionali escogitati si avrà una ben più pesante divaricazione tra le enunciazioni dei diritti e dei principi ivi sanciti e la loro concreta attuazione. Per alcuni di questi, inoltre, si annunciano dei clamorosi stravolgimenti. Su tutti, la previsione contenuta nel primo comma dell'articolo 56:
"Le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dalla autonomia dei privati sono ripartite tra le Comunità locali, organizzate in Comuni e Province, le Regioni e lo Stato, in base al principio di sussidiarietà e di differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali, riconosciute dalla legge."
Con un colpo solo, al "pubblico" si sostituisce l'autonomia dei privati. Il tutto, tra l'altro, senza chiarire un minimo di criteri. Chi sarà, infatti, a stabilire come e quando i privati risulteranno inadeguati a svolgere determinate funzioni? Quale sarà il punto di discrimine rispetto al quale far valere le "scelte politiche" rispetto agli "equilibri di bilancio" dei privati?
Anziché partire da un esame sul campo del perché dei malfunzionamenti istituzionali e politici verificatisi durante gli ultimi 50 anni, si è direttamente passati all'elaborazione del sistema istituzionale facendo riferimento ad astratte elaborazioni dottrinali. Di fatto, una sorta di discussione blindata nella quale non è stato possibile approfondire tutto quanto non andava a soddisfare le aspirazioni politiche dei partiti che hanno imposto l'urgenza della riforma. E non deve oggi sorprendere se, per ogni "nuova" soluzione adottata dalla Bicamerale, i problemi da risolvere siano rimasti gli stessi di sempre; per non dire dei nuovi che sorgeranno a causa delle scelte fatte. Del resto, con neanche sei mesi di tempo a disposizione, e con un bagaglio di analisi praticamente nullo alle spalle(1), quale profondità di riflessione ci si poteva aspettare?
Piuttosto, c'è stata la conferma che il lavoro della Commissione non era tanto orientato ad una "risistemazione" della Carta Costituzionale alla luce dei 50 anni passati, con l'intento cioè di correggere gli aspetti più critici, quanto ad una ridefinizione complessiva funzionale agli attuali equilibri di potere politico ed economico.
- un presidenzialismo a tutti i costi, a torto ritenuto depotenziato, in grado di mortificare il Parlamento attraverso il potere di scioglimento;
- un'indicazione di legge elettorale che accentua i difetti tipici del maggioritario, e cioè la sovrarappresentazione istituzionale e quindi l'enorme potere di ricatto del pulviscolo del "centro politico", ma ugualmente in grado di marginalizzare la rappresentanza politica delle istanze e degli interessi sociali incompatibili con politiche di governo asservite alle "esigenze tecniche dei mercati";
- un progetto di federalismo tutto teso a realizzare per altre vie la disgregazione dello "Stato sociale";
- un nuovo articolato costituzionale sulla giustizia che si spiega soltanto nell'ottica di uno stravolgimento dell'attuale equilibrio fra i poteri, da effettuarsi nel prossimo futuro in sede di esame parlamentare del progetto di revisione costituzionale (in sede di Bicamerale si è infatti preferito evitare l'esame degli emendamenti, probabilmente per meglio "preparare" l'opinione pubblica!), e con ciò rinviando inutilmente (dolosamente!) gli interventi legislativi di tipo ordinario che oggi potrebbero permettere di risolvere gran parte delle disfunzioni della macchina giudiziaria;
- infine, una sorta di tricameralismo che ... chi lo capisce è bravo!
Per tutte queste ragioni, ci è sembrato quanto mai urgente un lavoro di documentazione e approfondimento di quanto è avvenuto in questi ultimi mesi.
E nel ringraziare coloro che hanno contribuito a questo lavoro, con opinioni non sempre coincidenti ma in ogni caso con sincero spirito di confronto, cogliamo l'occasione per sottolineare come tutta l'opera della Commissione Bicamerale abbia invece dato l'impressione di un approccio alle questioni fortemente contaminato da "altri interessi".
Un giudizio certamente duro; ma che nonostante ciò non riesce a dare l'esatta percezione della pervicacia con la quale i lavori della Commissione sono stati indirizzati per elaborare soltanto delle specifiche soluzioni. Basti ricordare la farsa della contrapposizione tra il "premierato forte" ed il "presidenzialismo", che non nasce dalle proposte di legge presentate prima dell'istituzione della Bicamerale, ma che è stata imposta come base di discussione sin dalle prime battute.
Tutto lo schieramento dell'Ulivo ha come nulla accantonato la possibilità di formare una propria maggioranza, intorno ad una proposta di premierato più vicina al modello tedesco, nonostante gran parte dei progetti di legge presentati dai parlamentari del centro-sinistra indicassero questa e non altre soluzioni. Il tutto per aderire ad una confusa soluzione di "premierato forte" nella quale avrebbe potuto riconoscersi pure la destra; pena il rischio del fallimento della Bicamerale.
L'alibi dell'accordo "largo" per giustificare soluzioni incredibili prima (il premierato forte); l'accettazione del sistema presidenziale poi. No, risulta veramente difficile credere alla neutralità degli "interessi", evidentemente presenti in entrambi gli schieramenti, in ordine a tutte le scelte fatte in sede di Commissione Bicamerale.
Nota 1) Il premierato forte, ad esempio, oltre che portare il sistema istituzionale al di fuori della tradizione democratico-parlamentare, al pari del presidenzialismo, è una "trovata" dell'ultima ora e tutta italiana. E va purtroppo constatato quanto penosi ed inconcludenti siano stati i diversi tentativi dell'Ulivo di dare a questo tipo di proposta un minimo di credibilità.
Due sono le principali direzioni di marcia perseguite per realizzare questo disegno:
a) Verticalizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero;
b) Neutralizzazione del ruolo del C.S.M.
Altre contengono delle palesi assurdità, come la pretesa di "costituzionalizzare" il principio dell'"oralità" che - se attuata - renderebbe incostituzionale il processo amministrativo, il processo civile, e metterebbe fuori legge i riti alternativi nel processo penale; altre sono meramente decorative, come la ricopiatura della norma dell'art. VI della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, tirata fuori a mo' di foglia di fico. Quel che è ancora più grave è l'effetto diseducativo che hanno queste norme. Il lettore superficiale avrà l'impressione che i diritti processuali dell'imputato ed il principio del contraddittorio non esistevano nell'ordinamento giuridico italiano fondato sulla costituzione del 48 e che c'è voluta l'opera di grandi costituenti come Boato, Berlusconi o la Parenti per introdurre, ex novo, questi principi elementari di diritto.
Brevemente, basti ricordare che l'istituzione della Commissione Bicamerale nasce dalle ceneri del fallito tentativo Maccanico di formare un nuovo Governo, per prolungare l'agonia della XII legislatura, proprio in funzione della realizzazione di una riforma costituzionale sul modello presidenzialista o comunque fondata sull'elezione diretta del "Capo dell'Esecutivo". Il tutto sulla base di un dialogo stucchevolmente amichevole tra Berlusconi e D'Alema, concordi nel ritenere che tra le due soluzioni non vi fossero sostanziali punti di divergenza.
Come si ricorderà, l'accordo fallì in dirittura d'arrivo, non tanto perché fossero saltate le ragioni dell'intesa, quanto per la convinzione del Polo di poter vincere le elezioni. Ad un certo punto, infatti, il continuo gioco al rialzo portato avanti da Fini non lasciò più margini per qualsivoglia trattativa. Questo aspetto della questione, però, non ha mai stimolato alcuna riflessione politica riguardo ai possibili umori del paese di fronte al merito della trattativa. Neanche è da dire che siano mancate possibilità di riscontro: soltanto due mesi dopo il Polo perse le elezioni!
È servito così a poco che neanche si era finito di festeggiare la vittoria elettorale del centro-sinistra che già veniva votata, in prima lettura, l'istituzione di una Commissione Bicamerale per le riforme con praticamente già delineate le direttrici lungo le quali sviluppare la nuova forma di governo(2).
Tentativi, questi, ben presenti nella prima bozza presentata dal relatore D'Onofrio e che soltanto in parte risultano attenuati nel testo finale. Basti riflettere sul principio di prestazione minima introdotto dall'art. 59 - punto c)(4); e l'ormai famoso articolo 56, che assegna all'autonomia dei privati una sorta di funzione pubblica rispetto alla quale l'intervento pubblico deve ritrarsi(5). Per non dire, come si evidenzia nella relazione di minoranza, della contraddittorietà del principio di autonomia presente nel secondo comma dell'art 65, che, se da un lato prevede un fondo perequativo per "consentire alle Regioni beneficiarie di svolgere le funzioni ed erogare i servizi di loro competenza ordinaria ad un livello di adeguatezza medio"; dall'altro impone alle stesse dei criteri esterni di giudizio, "in condizioni di massima efficienza ed economicità", tali da pregiudicare, per l'appunto, l'autonomia delle scelte. Il tutto appare poi ancora più in contraddizione laddove si consideri che l'ultimo comma dell'art. 59 prevede soltanto un limitatissimo potere d'intervento sostitutivo da parte del Governo(6). Mentre cioè s'impongono dei criteri di efficienza ed economicità, esercitando in tal modo una funzione più o meno nascosta d'indirizzo, nessun criterio è stato invece previsto per stabilire eventuali inadempienze delle Regioni, relativamente all'obbligo di garantire le prestazioni "minime" fissate dalla Repubblica, tali da giustificare che a queste debba sostituirsi, più per dovere che per diritto, il Governo.
Va infatti sottolineato che il testo finale è stato votato a larga maggioranza e con il convinto sostegno dei Popolari e dei Verdi; per non dire dell'On. Crucianelli (Comunisti Unitari) che ha optato per una scelta "molto originale": l'astensione!?
I Popolari ed i Verdi, nello specifico, sono riusciti a passare, nel breve volgere di pochi mesi, da posizioni di riforma che s'ispiravano al "cancellierato tedesco" ad una più marcata preferenza per il "premierato forte"(7), per poi accettare tranquillamente come interna alla tradizione parlamentare la scelta del presidenzialismo.
Sorprendente, in tal senso, è l'interpretazione che di tale scelta dà l'On. Marini nella sua dichiarazione di voto:
A dargli infatti una prima smentita, riguardo al punto che il Presidente non avrebbe poteri diretti di governo, c'è la previsione contenuta nell'art. 76 che impone l'obbligo delle dimissioni del Governo nelle mani del Presidente appena eletto. La prima domanda da porsi è quindi estremamente semplice: che ruolo svolge il Presidente appena eletto nel momento in cui potrebbe decidere di indire nuove elezioni a seguito delle obbligatorie dimissioni del Governo?
Si tratta di un ruolo di garanzia, o piuttosto a favore di una parte, di quella che con lui ha vinto le elezioni presidenziali e che quindi pretende di rimettere in discussione la direzione politica del paese o, diversamente, di avere la possibilità di un'immediata riconferma della classe di governo attraverso il rinnovo della Camera politica per poter così avere altri 5 anni d'incontrastata governabilità?
Non è questo un meccanismo di formazione dei poteri in grado di condizionare l'azione del Governo?
Se infatti l'opportunità di cambiare o di ribadire l'efficacia di un determinato indirizzo di governo è data dall'elezione diretta del Presidente, inevitabilmente la campagna elettorale presidenziale sarà impostata sui programmi di governo. E come si fa, dopo aver eletto il Presidente sulla base di un preciso programma di governo, sostenere poi che questo debba ritrarsi ed assumere funzioni di garanzia una volta nominato il Primo ministro?
Considerando poi il mutato equilibrio istituzionale tra i poteri, anche il rinvio delle leggi o dei regolamenti assume, di fronte ad un Presidente con un programma di governo alle spalle e forte dell'elezione diretta, i connotati veri e propri di un potere di indirizzo politico tipico dei sistemi presidenziali: non più, cioè, la previsione di un intervento posto a garanzia della legalità costituzionale, ma a garanzia degli interessi politici rappresentati dal Presidente che, attraverso il rinvio, potrebbe cercare d'influire sull'indirizzo legislativo e di governo.
Mentre a questa Camera, infatti, non è permesso altro che presentare e votare una mozione di sfiducia al Governo, le successive decisioni sul come risolvere la crisi politica, eventualmente sopraggiunta, vengono lasciate al solo arbitrio del Presidente della Repubblica, che può decidere se indire nuove elezioni o se nominare un nuovo Primo ministro.
Tenendo conto che nella proposta di revisione l'art. 76 è congegnato per facilitare la formazione di "Governi di minoranza", è facile prevedere che il futuro Presidente utilizzerà la minaccia dello scioglimento per indurre a più miti consigli il Parlamento e per tentare possibili "Governi del Presidente"; per non dire che così, tra l'altro, laddove il Presidente riuscisse a mettere in piedi una maggioranza parlamentare trasversale o comunque diversa da quella uscita dalle elezioni, si verrebbe a legittimare la possibilità, più o meno descritta come la peste bubbonica dell'attuale sistema, di realizzare dei veri e propri ribaltoni: "Lui può!", si potrebbe sintetizzare il tutto con una battuta(8).
E sempre relativamente alla possibilità, data soltanto al Presidente, di poter tentare la formazione di un nuovo Governo, non è neanche da escludere che si possa arrivare ad un serio conflitto politico-istituzionale tra il Presidente e "quel Parlamento" che si "ostinasse" a rifiutare le proposte di soluzione presidenziali:
Altra eventualità che non può poi essere affatto esclusa, in quanto con ogni probabilità sarà questo lo scenario politico con il quale ci si dovrà abituare a convivere, è che il Presidente cerchi di condizionare, forte del sostegno di una sufficiente forza parlamentare di maggioranza in grado di minare la stabilità dell'Esecutivo, l'indirizzo politico del Governo(10). Se ad esempio il Primo ministro si rifiutasse di rimuovere uno dei ministri, il Presidente potrebbe provocare, attraverso il gruppo di parlamentari a lui fedele e forte della consapevolezza che nel caso estremo di dimissioni dell'intero Governo il pallino tornerebbe sulle sue mani, un'acuta fase di crisi politica della maggioranza. E qui potrebbe scattare l'ennesimo paradosso. Per evitare infatti di subire passivamente iniziative presidenziali di questo tipo, sia il Primo ministro che parti consistenti del Parlamento potrebbero essere tentati di modificare la maggioranza parlamentare che sostiene il Governo, al fine di superare il momento di stallo o l'eventuale mozione di sfiducia, e non consegnare così la decisione sul come risolvere la crisi al Presidente. Un'eventualità, questa, che potrebbe aprire una fase politica molto accesa ed in grado di produrre profonde lacerazioni nei rapporti fra i poteri e con pericolosi riflessi sul tessuto sociale: da un lato, infatti, una nuova maggioranza parlamentare di governo diversa da quella "in teoria" (11) votata dagli elettori; dall'altro un Presidente eletto direttamente che avocherebbe a sé ogni potere di discrezionalità in ordine all'evolversi della crisi politica che da lui, però, potrebbe benissimo essere stata arbitrariamente provocata. Per i sostenitori del presidenzialismo, chiaramente, non di libero arbitrio si tratterebbe, ma di un legittimo esercizio dei poteri che l'elezione diretta implicitamente conferisce.
È vero, in questo paese c'è chi lavora sempre e soltanto per stravolgere completamente, a proprio esclusivo vantaggio, gli assetti istituzionali; altrimenti non se ne fa nulla e semplici proposte in grado di risolvere le disfunzioni che sono sotto gli occhi di tutti non vengono neanche prese in considerazione.
Ma non è questo il caso, On. Pieroni: qui la palingenesi c'è stata; probabilmente non nella misura desiderata da alcuni, ma non per questo meno asservita al disegno di totale stravolgimento dei principi costituzionali portato avanti dalla destra... e che destra!
E dire oggi, riprendendo la dichiarazione di voto dell'On. Pieroni, che il lavoro fatto dalla Bicamerale ha prodotto risultati parziali significativi «ad un punto tale che, se entrassero in vigore fin da oggi, rappresenterebbero delle sfide di non poco conto rispetto alle esigenze di rinnovamento del nostro paese», significa aver abdicato sin da ora su tutta la linea.
Con il presidenzialismo, infatti, si completa il passaggio ad un sistema bipolare rigido, già parzialmente realizzato attraverso l'introduzione della legge elettorale maggioritaria, in grado di escludere dai luoghi istituzionali i conflitti sociali da considerare scomodi.
Non solo e soltanto a causa dell'azzeramento della rappresentanza che con l'elezione diretta del Presidente si realizza, non potendosi, in una scelta così limitata, articolare la complessità delle relazioni sociali; ma anche e soprattutto per la "necessità" di escogitare gli ovvi contrappesi da contrapporre all'eventuale dilagare dell'attività presidenziale di cui precedentemente si è fatto un breve accenno.
È lo stesso relatore Salvi, nella relazione finale, a mettere in guardia contro il rischio Weimar in presenza di un Parlamento dagli equilibri politici ben più complessi in ordine agli interessi rappresentati(12). Di qui l'esigenza di una legge elettorale in grado di azzerare, anche in sede parlamentare, la rappresentanza, e questo al fine di avere maggioranze di governo forti in grado di "resistere" al Presidente.
Una scelta che quindi s'impone in funzione della forma di governo adottata; e quindi un rimedio che è chiaramente peggiore del male, che ben lascia capire quanta ipocrisia e quanto dolo intellettuale vi fossero in chi ha avuto la faccia tosta di sostenere che una forma di governo valeva l'altra e che la tradizione democratico-parlamentare non era e non è affatto incompatibile con un'evoluzione dell'attuale sistema istituzionale in senso presidenziale.
Un'evoluzione che non tiene conto dei motivi che hanno determinato il fallimento del tentativo di "bipolarizzare a tavolino" l'estrema complessità della realtà sociale italiana, ma che cerca di raggiungere ad ogni costo questo risultato mutando la forma di governo e costringendo così, attraverso questa, l'accettazione della logica maggioritaria, pena il rischio del malfunzionamento della macchina istituzionale. Come dire, un azzeramento bipolare da imporre, o meglio, che s'impone alla complessità della dialettica democratica "per amore o per forza": o perché si accetta di eleggere un Parlamento privo della rappresentanza e del potere di intervenire sulle politiche di governo di ampi settori sociali; o perché, in assenza di questa condizione, ci penserebbe comunque il Presidente a "semplificare" nella sua persona la logica del "chi arriva primo prende tutto".
Non essendo cioè riusciti ad escludere dalla mediazione istituzionale le realtà sociali che non si prestano ad essere "normalizzate" in una logica di concertazione dei contrasti sociali completamente asservita alle esigenze dell'impresa, si è reso indispensabile, sia per la destra che per la "sinistra liberista", portare avanti il salto di qualità della forma di governo presidenziale e l'indicazione di una nuova legge elettorale di tipo maggioritario a due turni(13).
E riguardo a quest'ultimo aspetto, bisogna purtroppo rilevare che anche Rifondazione Comunista ha sottoscritto l'impegno a realizzare una legge elettorale a doppio turno, fondata sul ballottaggio di coalizione anziché di collegio; il tutto, probabilmente, per contrattare la persistenza della quota proporzionale.
Di tutti i doppi turni possibili, però, quello che prevede il «ballottaggio unico nazionale tra le due coalizioni che nel primo turno hanno ottenuto i più alti numeri di seggi» è sicuramente il peggiore. Mentre viene infatti amplificato il peso politico dei partiti di centro, i partiti che non hanno alcun potere di contrattazione elettorale, perché rigidamente schierati agli estremi dei poli politici e quindi senza la possibilità di poter minacciare travasi di voti da una parte all'altra degli schieramenti, verranno automaticamente tagliati fuori dagli accordi elettorali e, quindi, di programma(14).
Per quale motivo, ad esempio, l'Ulivo dovrebbe essere costretto a stipulare un accordo elettorale e politico con Rifondazione, se al primo turno quello che conta è arrivare fra i primi due? Forse che senza Rifondazione potrebbe esservi il timore di non passare il turno, in un sistema che prevede il ballottaggio di coalizione? E una volta passato il turno, forse che l'elettorato di Rifondazione potrebbe decidere di votare per il centro-destra, cosa che invece potrebbe benissimo fare l'elettore di centro?
La peculiarità della legge proposta, infatti, è che con l'attuale quadro politico(15) si sa già in partenza che a passare il turno saranno le coalizioni dell'Ulivo e del Polo; Lega o non Lega, Rifondazione o non Rifondazione, o quale che sarà il numero dei candidati non coalizzati che, nel primo turno, potrebbero strappare dei seggi alle due coalizioni maggiori.
Rendendo inoltre sostanzialmente ininfluenti i risultati del primo turno, dato che la maggioranza parlamentare si conquista in ogni caso al secondo turno, non vi è più l'obbligo, per le coalizioni maggiori, di dover stipulare particolari accordi politici con i partiti estremi per cercare di conquistare quanti più collegi già nella prima tornata elettorale: nel primo turno è infatti importante che a livello nazionale si arrivi fra i primi due, con 100 o con 50 collegi vinti non importa, e nulla di più.
Nel caso del ballottaggio secco, limitato ai primi due candidati, per le coalizioni maggiori non sempre potrebbe esservi la certezza di superare il primo turno; basti pensare che solo nel nord non sarebbero pochi i collegi dove la Lega riuscirebbe a garantirsi il passaggio al secondo turno. Già nel primo turno, quindi, per le coalizioni maggiori potrebbe rendersi necessario allargare, quanto più possibile, la propria base elettorale, dovendo così per forza di cose includere anche quelle forze rispetto alle quali potrebbero sì confidare in un recupero dei voti al secondo turno, ma a condizione di arrivarvi. Certo, in mancanza di terzi incomodi tutto il ragionamento salta. Ma qui non si sta facendo l'elogio del tal doppio turno, al quale ci si dovrebbe sempre opporre, indipendentemente dal tipo di soluzione adotta; ma se doppio turno deve essere, che ci sia almeno una minima possibilità per poter tentare un intervento politico.
E anche nel caso che al ballottaggio possano partecipare più candidati, in base ad una determinata quota d'accesso, ben venga il "mercato delle vacche" alla francese, che sarebbe sicuramente non più deleterio di quello al quale siamo stati abituati dalle due ultime tornate elettorali, dove gli accordi per la divisione dei collegi tra i diversi partiti delle coalizioni sono stati contrassegnati da "temi" politici di bassissimo profilo. Quindi, molto cinicamente, tra voti che potrebbero andare dispersi e voti che potrebbero decidere la vittoria finale di una coalizione oppure dell'altra, a seconda di quanti collegi queste potrebbero essere disposte a cedere per poterne conquistare degli altri, ci sarebbe lo spazio per ottenere qualche utile accordo elettorale anche per quei partiti non facilmente assoggettabili alla piatta logica bipolare Ulivo-Polo.
Va da sé che tutto questo modo di ragionare non rappresenta il massimo della "politica"; anzi, si impiegherebbe volentieri il tempo in altre attività. Ma di fronte alla lesione del più elementare dei principi di democrazia, il diritto alla rappresentanza, non ci si può permettere il lusso di guardare troppo per il sottile. Anche perché, può piacere o no, le intese politiche si stipulano sulla base dei rapporti di forza.
Con l'innalzamento del numero delle firme, da 500.000 a 800.000, si è definitivamente consegnato lo strumento del referendum abrogativo ai grandi gruppi del potere politico ed economico. In tal senso, se l'obiettivo era quello di "limitare" Pannella, chi ha promosso e sostenuto tale modifica ha chiaramente mostrato di non aver capito quali interessi si muovono dietro le iniziative del radicale, che negli ultimi tempi è sempre più apertamente sostenuto da importanti settori del potere economico; per cui, non saranno certo 300.000 firme in più a spaventare i burattinai che di volta in volta decideranno di mettere in moto la macchina referendaria per presentare referendum a grappoli.
Queste 300.000 firme in più, invece, costituiranno un serio ostacolo per le realtà sociali che già ora non dispongono di mezzi organizzativi e finanziari tali da poter sostenere l'onerosa raccolta di firme.
Un intervento, quindi, che non frenerà l'abuso di chi con le solite firme dei soliti 800.000 cittadini presenterà una come cento proposte di referendum; ma che servirà soltanto per rendere lo strumento inaccessibile a chi, per i pochi mezzi di cui può disporre, vi farebbe ricorso per questioni realmente sentite.
Altra modifica a dir poco curiosa, in quanto risulta poco chiaro come potrebbe venire attuata, è stato il prevedere una legge che determini "il numero massimo di referendum da svolgere in ciascuna consultazione popolare".
Se anche in questo caso si è pensato ad una soluzione per mettere ordine di fronte ad abusi tipo quelli di Pannella, c'è soltanto da immaginare le matte risate che questi ora si starà facendo. La sua prossima iniziativa sarà sicuramente quella di presentare cento referendum, formalmente di cento comitati promotori diversi, sempre con le solite firme, e mandare così in tilt l'intera macchina referendaria.
Quanti di questi cento referendum potranno essere svolti in una singola consultazione? E quante consultazioni l'anno sarà possibile fare? E dopo quante consultazioni ci sarà la possibilità, per un altro comitato promotore, non riconducibile alle iniziative di Pannella, di vedere svolgere il proprio referendum? Su quale base, infatti, si potrebbe posticipare il referendum del tal comitato, per favorire lo svolgimento del referendum proposto da un altro comitato?
Insomma, se proprio si voleva dare la possibilità, ai tanti populisti di cui è sempre più pieno questo paese, di fare polemica nei confronti della politica del Palazzo in difesa della democrazia diretta offesa e calpestata, con questa trovata dell'art. 106 ci si dovrebbe essere riusciti in pieno.
Diversamente, per evitare in ogni caso di sovraccaricare di proposte referendarie una singola consultazione, al fine di salvaguardare l'uso consapevole ed efficace, da parte dei cittadini, del referendum abrogativo, era forse più opportuno perseguire altre strade. Si poteva, molto più semplicemente, intervenire sul numero massimo di proposte che ogni singolo cittadino può sottoscrivere nell'arco di un anno. Fissando ad esempio questo numero a cinque proposte, il singolo soggetto politico che volesse promuovere 20 referendum, dovrebbe necessariamente raccogliere due milioni di firme e non le solite 500.000 (o 800.000) moltiplicato per venti. Una proposta estremamente semplice da realizzare(16), e in una misura tale da non ledere l'opportunità per le minoranze di ricorrere pienamente allo strumento referendario. Con in più un'opera di scrematura delle proposte che parte dai cittadini stessi, e non dagli interessi politici di chi promuove referendum a grappoli con l'interesse specifico rivolto soltanto su alcuni dei temi proposti.
Le scelte sin oggi adottate dal costituzionalismo democratico in genere, hanno purtroppo evidenziato i limiti di un approccio alle questioni puntato più sul quadro politico e sugli equilibri delle forze parlamentari in campo, piuttosto che orientato ad una difesa coerente dei principi. Il punto di svolta di questa "politica di rimessa" si è avuto a gennaio di quest'anno, quando si è preferito non delegittimare il processo di revisione avviatosi, votando o indicando di non votare contro l'istituzione della Commissione Bicamerale, nel timore di aprire la strada all'elezione di un'Assemblea Costituente senza vincoli di mandato riguardo all'oggetto della revisione.
Una posizione di retroguardia che oggi evidenzia tutti i suoi limiti, e che fatalmente si riproporrà nel momento di decidere se votare NO al referendum finale previsto dalla Legge costituzionale che ha istituito la Commissione bicamerale. È bene infatti essere consapevoli, sin da ora, che l'auspicabile vittoria del NO potrebbe venire utilizzata per riproporre posizioni di rifiuto della "politica" dalle vocazioni plebiscitarie.
In tal senso, però, l'art. 138 della Costituzione ha chiaramente mostrato di non essere in grado di tutelare neanche se stesso. Si impone quindi una sua ridefinizione, alla luce degli effetti prodotti dalla legge elettorale maggioritaria (a meno di un auspicabile ritorno al proporzionale e la definitiva archiviazione del principio dell'azzeramento bipolare), che ne restituisca l'originaria impostazione di sostanza che esso aveva in regime di legge elettorale proporzionale.
Come è da restituire al loro originario equilibrio tutti gli strumenti posti a garanzia e controllo che la logica maggioritaria ha di fatto reso funzionali alle esigenze della maggioranza di governo.
Con il passaggio dal proporzionale al maggioritario, infatti, i poteri di nomina di natura parlamentare hanno acquisito una diversa valenza, potendo divenire di esclusivo dominio della maggioranza parlamentare uscita vincitrice dalle elezioni.
Basti pensare all'elezione del Presidente della Repubblica che, a Costituzione vigente, grazie al maggioritario potrebbe facilmente essere eletto da coalizioni di governo ben più omogenee che nel passato; e per di più non rappresentative dell'effettiva maggioranza degli elettori. Non più un Presidente espressione di un ampio arco di forze politiche e di un variegato insieme di interessi, quindi, ma la diretta espressione del programma di governo uscito premiato dal meccanismo elettorale. A ciò dobbiamo poi aggiungere che questo "Presidente di parte" a sua volta nomina un terzo dei giudici della Corte Costituzionale e presiede il Consiglio superiore della magistratura. Come anche non è da trascurare, indipendentemente dalla maggioranza che potrebbe essere richiesta, il potere di nomina parlamentare relativamente a questi due organi: un terzo dei giudici della Corte Costituzionale e del C.S.M(19).
In altre parole, con il passaggio dal proporzionale al maggioritario e divenuta concreta la possibilità, per il Governo, di poter definire in via pressoché esclusiva la composizione degli organi preposti al controllo della legalità costituzionale.
Tenendo infatti conto dei nuovi poteri attribuiti dal nuovo testo al Presidente della Repubblica, non si capisce perché si è deciso di lasciare a questi la nomina di un terzo dei giudici della Corte Costituzionale. Se a questi 5 giudici aggiungiamo inoltre i 3 di competenza del Senato, laddove il sistema d'elezione per questa Camera dovesse rimanere di tipo maggioritario, e con quindi la concreta possibilità che la maggioranza dei senatori sia riferibile alla stessa parte politica che ha promosso l'elezione del Presidente e che sostiene il Governo, è facile intuire verso quale labile regime di controlli e di garanzie ci si sta dirigendo. Tanto più che anche in ordine alla composizione del CSM si è deciso di aumentare la parte di nomina parlamentare; come anche si è deciso di lasciare la presidenza di questo Organo ad un Presidente della Repubblica con poteri di governo.
Si tratta certamente di un "paradosso" giuridico che ripropone l'inadeguatezza della vigente disciplina in merito ai modi di accesso e l'individuazione dei soggetti titolati a poter promuovere le questioni di legittimità costituzionale di fronte alla Corte. Ed è per questo che si ritiene largamente insufficiente quanto previsto dagli articoli 134 e 137. Sono certamente comprensibili le ragioni di chi vede dei rischi di snaturamento della funzione giurisdizionale della Corte a causa del possibile eccesso di ricorso alla stessa da parte delle minoranze parlamentari e dei cittadini, come anche potrebbe essere concreto il rischio di paralisi. Problemi, questi, per i quali è certamente necessario trovare delle soluzioni, ma che non possono però giustificare il protrarsi di una situazione che non garantisce l'effettivo controllo della legittimità costituzionale di numerose leggi e atti della Pubblica Amministrazione; le zone franche di cui fa accenno anche il relatore Boato. Per non dire dell'impossibilità, anche nei casi dove il giudizio di illegittimità viene espresso, di riuscire a sanare situazioni consolidate a causa del tardivo intervento (principalmente dovuto ai tempi imposti dai modi d'accesso) della Corte Costituzionale: si veda ad esempio la vicenda legata alla legge Mammì.
Ma ritornando all'introduzione della legge elettorale maggioritaria, di fronte allo sconquasso istituzionale sopravvenuto, il cittadino comune non può che chiedersi se vi sia stata l'oggettiva impossibilità di riuscire a sollevare la questione di illegittimità di fronte alla Corte Costituzionale, o il timore politico di affrontare di petto il responso di un referendum comunque lesivo dei diritti delle minoranze ed in grado di stravolgere l'equilibrio dei poteri definito dalla Costituzione. Domande più che pertinenti, visto che non risultano iniziative in tal senso. Domande che, in ogni caso, mettono in evidenza i limiti di un sistema di controllo di legittimità costituzionale soltanto successivo e che a volte si riduce ad una mera salvaguardia dei soli aspetti formali.
Un esame di sostanza, infatti, avrebbe potuto (dovuto) sancire l'oggettiva incostituzionalità della legge elettorale maggioritaria, non potendosi tollerare l'inversione del principio della superiorità delle fonti. Sono ormai 4 anni che si sta discutendo del come adeguare la Costituzione al nuovo regime di regole "imposto" dal maggioritario... e non viceversa!
Inversione del principio che è alla base di tutta la "non cultura" costituzionale della destra, che con forza e a più riprese ha condotto campagne di delegittimazione contro tutti i Poteri dello Stato che si rifiutavano di ottemperare al nuovo regime di regole non scritte, e alla quale il centro-sinistra si è di fatto supinamente adeguato. Una fase di revisione costituzionale che nasce quindi sulla base di un profondo processo di violazione e al tempo stesso di delegittimazione della Costituzione vigente.
E non si tratta di un'esasperata lettura politica dettata da chissà quale vocazione estremistica: sono i trionfalismi dei settori politici più retrivi a dare questa chiave interpretativa.
Mentre da parte dei sostenitori dell'onnipotenza del mercato, viene espressa la soddisfazione nel vedere ribaltata la logica (sancita nella Prima parte della Costituzione) che regola i rapporti tra l'interesse pubblico e quello dei privati.
Nota 1) Una bandiera che fu per lo più portata avanti con arroganza, ribadendo ad ogni occasione che, in caso di vittoria del Polo, i cittadini avrebbero avuto il presidenzialismo, anche a costo di votare da soli, con la maggioranza di un solo voto, le riforme costituzionali.
Nota 2) Da ricordare, inoltre, che anche in questa circostanza è stata la destra a dettare le condizioni per la stesura del testo della Legge costituzionale: eclatante è stata l'imposizione del referendum unico. Si vedano gli articoli contenuti nel file storico.wri.
Nota 3) La Legge istitutiva non menziona esplicitamente la parte relativa alla "Magistratura", come invece fa per tutto il resto, ma si limita ad un generico riferimento al sistema delle garanzie, lasciando per lo più intendere che si dovesse far riferimento ai problemi sorti con l'introduzione della legge elettorale maggioritaria e dei quali si fa un breve esame alla fine di questo intervento: Art. 1 comma 4 - La Commissione elabora progetti di revisione della parte II della Costituzione, in particolare in materia di forma di Stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie.
Nota 4) Art. 59 - c) "...; determinazione dei livelli minimi comuni delle prestazioni concernenti i diritti sociali e la tutela della salute". Questo passaggio nasconde una vera e propria insidia. Cosa si vuole infatti affermare sancendo il principio dei "livelli minimi"? Che la diversità delle prestazioni possono essere considerate un fatto normale, tale da non obbligare lo Stato ad intervenire per migliorare il livello generale dei servizi?
Nota 5) Art 56 - "Le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dalla autonomia dei privati sono ripartite tra le Comunità locali, organizzate in Comuni e Provincie, le Regioni e lo Stato, in base al principio di sussidiarietà e di differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali, riconosciute dalla legge. ..."
Nota 6) Art. 59 - "...il Governo della Repubblica può sostituirsi ad organi delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni, nel caso che da inadempienze derivi pericolo per l'incolumità e la sicurezza pubblica".
Nota 7) Durante la votazione sul testo base riguardante la forma di governo (seduta N°. 33 della Bicamerale), Rifondazione Comunista presentò una proposta alternativa che si rifaceva ampiamente al modello tedesco e che aveva molti punti in comune con le proposte di legge presentate alla Camera dei Deputati dai Verdi e dai Popolari nel mese di gennaio (N° 2995 e N° 3088 degli atti della Camera); come molti punti in comune aveva anche con la proposta presentata da alcuni deputati del PDS, Folena, Mussi ed altri (N° 3071 degli atti della Camera). Ma sia i Verdi che i Popolari dichiararono di preferire, a questa proposta, la formula del premierato forte; formula poi uscita sconfitta nei confronti del testo base riferito al semipresidenzialismo.
Nota 8) L'art. 69, punto b), prevede la nomina del "Primo ministro, tenendo conto dei risultati delle elezioni della Camera dei deputati". Questa previsione, più che una norma antiribaltone sembra piuttosto la conferma che il sistema sia molto più presidenziale di quanto non sembri. Tranne che l'atto politico della mozione di sfiducia, infatti, non esistono dei meccanismi istituzionali veri e propri per mettere in discussione le scelte presidenziali in ordine alla designazione del Primo ministro. Meno che mai, poi, si potrebbe contestare il merito di tale scelta di fronte all'esigenza di risolvere eventuali crisi di governo.
Nota 9) La classe politica italiana non ha mai mancato di trovare i motivi per prolungare l'agonia delle legislature, purché queste proseguissero nell'interesse della parte politica che di volta in volta si assurgeva ad interprete delle immediate esigenze che "provenivano" dal Paese: una volta l'emergenza economica; un'altra quella internazionale... insomma, se già prima qualsiasi motivo era buono per varare "governi tecnici o a tempo determinato", c'è da supporre che il futuro Presidente non si lascerà scappare l'opportunità di divenire l'arbitro-giocatore della partita.
Nota 10) Tutti i casi di possibile conflitto fra il Parlamento ed il Presidente qui esaminati, fanno riferimento ad una situazione politica da considerare fisiologica: Presidente e maggioranza di governo appartenenti alla stessa coalizione politica. Il problema vero, infatti, del come risolvere i conflitti interni alla stessa maggioranza di governo, non è stato affatto risolto, ma anzi potenzialmente esasperato dalla presenza di due leadership con funzioni istituzionali tra di loro facilmente intersecanti. Basti pensare, in tal senso, al già ricordato potere di rinvio delle leggi o dei regolamenti del Governo che potrebbe ben essere utilizzato da parte del Presidente in funzione di contrasto politico.
Nota 11) Gli elettori, secondo i sostenitori della logica maggioritaria, votano per un preciso programma di Governo. La cosa è però più teorica che pratica, come ha avuto modo di evidenziare il professor Sartori durante l'undicesima seduta della Commissione Bicamerale: «Con tutto il rispetto, mi chiedo quante cose voti un povero elettore, quante volontà esprima e come si faccia a sapere quale abbia espresso. Il voto è per un partito, per un programma, quello dell'Ulivo ha cento punti: per quale di questi cento punti ha votato l'elettore? Non esageriamo con la tesi per la quale il popolo ha espresso una certa volontà: ...».
Nota 12) «Con l'esclusione del caso tragico della Repubblica di Weimar, riportabile ante litteram alla categoria "semipresidenziale", e che fu segnato da problemi storici immani oltre che da indubbi difetti dei congegni istituzionali (primo tra i quali il sistema elettorale proporzionale "puro" a fronte di un sistema partitico estremamente frammentato e diviso ideologicamente), tutti i sistemi semipresidenziali attualmente esistenti in Europa hanno superato la duplice prova della democraticità e della governabilità.» (dalla relazione di Maggioranza).
Nota 13) Questo passaggio è praticamente ripreso da un precedente lavoro del '95 (La "riforma" truccata), con la triste differenza, però, che mentre allora si poneva l'attenzione sui pericoli dell'evoluzione del dibattito costituzionale, oggi si è costretti a constatare quanti di quei timori erano purtroppo fondati.
Nota 14) Ed è in questo rapporto di amplificazione-esclusione delle diverse forze politiche che sta tutta l'antidemocraticità dei sistemi elettorali maggioritari. Mentre l'elettore del Patto Segni, ad esempio, potrebbe benissimo spostare il proprio voto da un Polo all'altro, dando così un potere contrattuale non indifferente al proprio partito, l'elettorato di Rifondazione potrebbe decidere, tutt'al più, di astenersi; cosa che poi, tra l'altro, neanche avviene, verificandosi così, per la coalizione di centro-sinistra, il recupero quasi completo dei voti. E quindi, molto cinicamente, perché contrattare qualcosa che attraverso i meccanismi elettorali si riuscirà ad avere comunque? Più democratico di così...
Nota 15) Certo, nell'ipotesi di una rottura dell'Ulivo e la nascita di una formazione di centro, con ogni probabilità il PDS sarebbe costretto a doversi alleare con Rifondazione per avere la possibilità di passare al secondo turno. Siamo però nella fantapolitica; ed in ogni caso, laddove si verificasse questa eventualità, l'alleanza PDS-Rifondazione sarebbe una scelta obbligata anche con altre soluzioni di doppio turno.
Nota 16) Come per le schede elettorali, si può pensare ad un certificato elettorale contenente 5 tagliandi da consegnare ogni qualvolta si firmi una proposta referendaria.
Nota 17) Anche altri aspetti del testo licenziato dalla Bicamerale meriterebbero infatti di essere analizzati a fondo. Al di là delle scelte più eclatanti, come il già citato art. 56 o l'improvvisato tricameralismo, poco convincente appare anche il lavoro fatto relativamente alle garanzie costituzionali, delle quali si accennerà più avanti.
Nota 18) Riguardo a questo aspetto, si rinvia al materiale contenuto nel floppy allegato che fa riferimento alle diverse fasi del processo di revisione formalmente avviato a gennaio di quest'anno.
Nota 19) A differenza che per l'elezione del Presidente della Repubblica, la Costituzione, come anche il progetto di revisione proposto dalla Bicamerale, non definisce le modalità di nomina parlamentare per questi due Organi. Per correggere quindi le distorsioni introdotte dal "premio elettorale" maggioritario, un primo intervento legislativo, che non implicherebbe alcuna revisione costituzionale, potrebbe essere orientato verso l'innalzamento dei quorum parlamentari necessari per varare le nomine. Un simile intervento, però, non potrebbe comunque correggere l'assenza, nel Parlamento, della somma delle minoranze escluse dalla rappresentanza dal meccanismo elettorale. Un punto critico dei sistemi bipolari, infatti, è l'azzeramento politico che avviene soprattutto tra le forze di opposizione, permettendo, di norma, soltanto ad una di queste di essere adeguatamente rappresentata.
Nel caso specifico, tuttavia, non si può trascurare la gravità della decisione di predisporre un nuovo testo costituzionale senza sollecitare il più ampio dibattito possibile. Sarebbe stata necessaria una discussione estesa - in termini di tipo e di numero dei partecipanti - dei punti da trattare; sarebbe occorso condurla a più livelli, da quello strettamente analitico e teorico a quello più propriamente politico. Purtroppo, i risultati di un confronto fra posizioni diverse hanno un senso, quelli della discussione sulla proposta uscita dal cappello a cilindro di qualche estemporaneo, anche se magari rispettabile, riformatore ne hanno un altro. Anche al più benevolo critico non può sfuggire che la scelta di una procedura così affrettata non poteva che potenziare il peso dell'inerzia intellettuale e degli interessi costituiti.
Nota 1) L'art. 56 del nuovo testo costituzionale così inizia: "Le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dalla autonomia dei privati sono ripartite tra le Comunità locali, organizzate in Comuni e Province, Regioni e lo Stato, in base al principio di sussidiarietà e di differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali, riconosciute dalla legge.".
Nota 2) Altri elementi sono altrettanto importanti come, per esempio, la decisione di trattare - nel caso dell'esempio - le automobili o l'accesso a certe zone come un bene di lusso, soggetto a tassazione elevata o a restrizioni, così da disincentivarne l'uso.
Ma è politica molto mediocre quella che non si chiede il senso di marcia del cambiamento, il suo segno di fondo, le sue tendenze. Credo, infatti, che una delle più stupide e vuote invenzioni politiche dell'ultimo quinquennio sia l'accezione di "nuovo" e l'accezione di "conservatore".
Mi interessa qui solo sottolineare un aspetto che ritengo decisivo: va concentrata l'attenzione delle lavoratrici, dei lavoratori, dei sindacati sull'intreccio tra riflessi sociali e controriforme istituzionali. È bene che tutti comprendano che non ci troviamo di fronte ad una "tecnica istituzionale" ma ad una ristrutturazione politica delle istituzioni. Essa si svolge, tra l'altro, non in un clima "storico", così come ogni Costituzione deve nascere, ma in un clima di compromessi e di mercificazione. Che si trattasse, a casa di Letta con Berlusconi il "presidenzialismo" o il "capitolo giustizia" della nuova Costituzione, nessun democratico italiano aveva mai immaginato ... La realtà sa essere più drammatica degli incubi!
Ecco ciò che ora si vuole realizzare: un "protrarsi" dell'elemento di coazione implicito nel meccanismo dell'accumulazione capitalistica sul terreno diretto delle istituzioni e della "politica". Il "pubblico" soggiace al "privato"; la comunità soggiace alla valorizzazione del capitale. Si tenta di "costituzionalizzare" i rapporti di forza sociali, caratterizzati, ideologicamente e politicamente, da una violenta rinascita liberista. Insomma, la logica del mercato e dell'impresa tendono a pervadere la "sfera politica" fino al punto di svuotare ogni strumento democratico, di controllo, di partecipazione organizzata di massa. Viene negato il "valore sociale" del lavoro, che è un cardine della nostra Costituzione, subordinandolo al primato dell'accumulazione. Del resto, quando la moneta può essere governata dalla banche, senza che gli stessi governi possano intervenire in maniera efficace nell'ambito europeo, siamo già ad un abbattimento, in sé per sé, della sfera della sovranità politica, intesa come processo collettivo di trasformazione, capace di "dialettizzarsi" con i processi di autorganizzazione.
La questione sociale "scompare" dalla dialettica istituzionale. Le istituzioni diventano una "corazza" contro il conflitto. Perciò vi è bisogno, per i «nuovisti», di un "uomo forte" per un popolo "muto", che esaurisce, con il voto al Leader, la sua attività, la sua "funzione" politica.
Di Pietro e la "sua gente": ma il plebiscito è un segmento della democrazia autoritaria; è l'esatto opposto della democrazia organizzata e partecipata in una società pluralistica, complessa, ricca di saperi, culture, professionalità, bisogni.
Di fronte alla crisi della democrazia, indotta dai processi di "mondializzazione" e dal mutamento delle funzioni dello Stato-nazione, è stata subito messa da parte la risposta (possibile ed innovativa) dello sviluppo della democrazia di massa all'interno di un orizzonte di socializzazione, di democratizzazione della vita quotidiana, di allargamento e dilatazione dell'ambito della decisionalità; per puntare invece sulla scelta, ossessivamente ricercata, dell'esaltazione dell'esecutivo e dei "poteri di comando" centrali, nel tentativo, per l'appunto, di renderli impermeabili alle tensioni, ai conflitti, alle modifiche indotte dalla società, dalla "domanda democratica".
Cosa altro voleva la famosa Commissione Trilaterale?
E, per certi versi, quali erano i criteri di fondo del cosiddetto Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli?
La Costituzione non deve essere considerata merce nel mercato degli equilibri politici in una fase di transizione. Dovremo far capire a tutti che si sta giocando una "partita vera", con forti valenze simboliche(1):
Siamo ad un "passaggio stretto": la sostanziale delegittimazione della Costituzione, prodotta dalla propaganda liberista (e pidiessina), ha già appannato, nell'immaginario collettivo, l'interazione del "patto fondamentale costituzionale".
O sapremo costruire, in quest'autunno, un movimento "largo", plurale, capace di coinvolgere anche settori sociali del lavoro, dei lavori, un movimento per il «costituzionalismo democratico», o rischiamo di giungere al referendum costituzionale del 1988 come profeti disarmati, impotenti di fronte all'ondata populista, sapientemente "pilotata" dai Romiti di turno.
Può non interessare. Ma è bene conoscere la posta in gioco.
Nota 1 In modo che ciascuno possa scegliere il suo atteggiamento ed il suo comportamento nella fase istituzionale di discussione sugli emendamenti che si apre in autunno; e, successivamente, nel momento referendario, affinché non sia una becera trappola propagandistica falsificata come fu per il referendum Segni-Occhetto.
Art. 138 Cost.
. Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.
. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non e' promulgata, se non e' approvata dalla maggioranza dei voti validi.
. Non si fa luogo a referendum se la legge e' stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.
Art. 139
. La forma repubblicana non puo' essere oggetto di revisione costituzionale.
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Art. 166
. L'iniziativa della revisione costituzionale verra' esercitata nei termini previsti nei comma 1 e 2 dell'art. 87.
Art. 167
1) I progetti di revisione costituzionale dovranno essere approvati da una maggioranza dei tre quinti di ciascuna delle Camere. Se non vi sara' accordo fra di esse, si cerchera' di ottenerlo mediante la creazione di una commissione composta in egual numero di deputati e senatori, la quale presentera' un testo che sara' votato dal Congresso e dal Senato.
2) Se non si otterra' l'approvazione mediante il procedimento di cui al comma precedente, e sempre che il testo abbia ottenuto il voto favorevole della maggioranza assoluta del Senato, il Congresso, con la maggioranza dei due terzi, potra' approvare la riforma.
3) Approvata la riforma dalle Cortes, questa verra' sottoposta a referendum per la sua ratifica quando lo richieda, entro quindici giorni successivi alla sua approvazione, la decima parte dei membri di una qualsiasi delle Camere.
Art. 168
1) Qualora si intenda promuovere la revisione completa della Costituzione o una revisione parziale riguardante: il Titolo preliminare; il Capitolo II, Sezione I, del Titolo I; o il Titolo II, si procedera' all'approvazione di tale delibera a maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera, e allo scioglimento immediato delle Cortes.
2) Le Camere elette dovranno ratificare la decisione e procedere allo studio del nuovo testo costituzionale, che dovra' essere approvato a maggioranza dei due terzi di entrambe le Camere.
3) Una volta approvata dalle Cortes, la revisione sara' sottoposta a referendum per la sua ratifica.
Art. 169
Non si potra' iniziare la revisione costituzionale in tempo di guerra o quando si presenti una delle situazioni previste nell'art. 116.
Art. 87
1) L'iniziativa legislativa spetta al Governo, al Congresso e al Senato, conformemente alla Costituzione e ai regolamenti delle Camere.
2) Le Assemblee delle Comunita' autonome potranno chiedere al Governo l'adozione di un progetto di legge o rimettere alla Presidenza del Congresso una proposta di legge delegando allo scopo davanti a questa Camera un massimo di tre dei loro membri.
3)...
Art. 116
1) Una legge organica regolera' gli stati d'allarme, di eccezione e d'assedio, nonche' le competenze e restrizioni corrispondenti.
...
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Art. 131
. Il potere legislativo ha il diritto di dichiarare la necessita' di revisionare una particolare disposizione costituzionale, esattamente specificata.
. Dopo questa dichiarazione le due Camere sono sciolte di pieno diritto.
. Ne saranno convocate due nuove in conformita' dell'art. 71.
. Tali Camere delibereranno, d'accordo col Re, sui punti sottoposti a revisione.
. In tal caso, le Camere non potranno deliberare se non saranno presenti almeno i due terzi dei membri che compongono ognuna di esse; e non sara' accettato nessun cambiamento, se non otterra' almeno la maggioranza dei due terzi dei voti.
Art. 131-bis (aggiunto il 15/1/1968)
. Nessuna revisione della Costituzione puo' essere intrapresa e proseguita in tempo di guerra o nel periodo in cui le Camere si trocino nell'impossibilita' di riunirsi liberamente in territori nazionale.
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Art. V Il Congresso, ogni qualvolta i due terzi delle Camere lo riterranno necessario, proporra' emendamenti alla presente Costituzione, oppure, su richiesta di due terzi delle Legislature dei vari Stati, convochera' una Convenzione per proporre emendamenti. In entrambi i casi, gli emendamenti saranno validi a ogni effetto, come parte di questa Costituzione, allorche' saranno stati ratificati dalle Legislature di tre quarti degli Stati, o dai tre quarti delle Convenzioni riunite a tale scopo in ciascuno degli Stati, a seconda che l'uno o l'altro modo di ratifica sia stato prescritto dal Congresso; tuttavia resta stabilito che nessun emendamento, prima dell'anno 1808, potra' modificare in alcun modo i capoversi primo e quarto della Sezione 9 dell'Art. I, e che nessun Stato, senza il suo proprio consenso, potra' essere privato della parita' di rappresentanza nel Senato.
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Art. 15 - Le leggi costituzionali sono approvate con due delibere di identico tenore. La seconda di tali deliberazioni non può intervenire se non dopo che si sono tenute nuove elezioni generali per il Riksdag e la nuova assemblea si è riunita. Inoltre devono trascorrere non meno di nove mesifra la data della prima presentazione della questione all'assemblea del Riksdag e la data delle elezioni, a meno che la Commissione degli affari costituzionali non consenta una deroga per mezzo di una delibera pronunziata entro il periodo di esame della questione, e alla quale abbiano aderito almeno i cinque sesti dei membri.
Il Riksdag non può approvare come pendente un progetto di legge costituzionale che sia incompatibile con un altro progetto di legge costituzionale già pendente, senza al tempo stesso respingere quello approvato per primo.
Su una proposta di legge costituzionale pendente deve essere indetto il referendum se ne fa richiesta almeno un decimo dei membri del Riksdag e almeno un terzo l'appoggia. La richiesta deve essere presentata entro quindici giorni dalla data di approvazione della proposta di legge costituzionale pendente da parte del Riksdag. La richiesta non può essere istruita in Commissione permanente.
Il referendum è indetto in concomitanza con le elezioni del Riksdag di cui al primo comma. Gli elettori votano pro o contro la proposta di legge costituzionale pendente. La proposta è rigettata se contro di essa vota la maggioranza degli elettori, cioè più della metà di coloro che nelle elezioni del Rikstag hanno dato dei voti validi. Altrimenti il Rikstag passa all'esame definitivo della proposta.
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Art. 110 - 1) Le disposizioni della Costituzione possono essere sottoposte a revisione, tranne quelle che stabiliscono che la forma di governo deve essere quella della Repubblica parlamentare e quelle degli articoli 2 paragrafo 1), 4 paragrafi 1), 4) e 7), 5 paragrafi 1) e 3), 13 paragrafo 1) e 26.
2) La necessità della revisione della Costituzione è accertata con una decisione presa dalla Camera dei deputati, su proposta di almeno cinquanta deputati ed a maggioranza di tre quinti del numero complessivo dei membri della Camera, in due scrutini separati da un intervallo di almeno un meso. Le disposizioni da revisionare sono specificatamente determinate da tale decisione.
3) Qualora sia stata decisa con la menzionata delibera parlamentare la revisione costituzionale, la successiva Camera dei deputati si pronuncia, nel corso della prima sessione, sulle disposizioni da revisionare a maggioranza assoluta dei suoi membri.
4) Se la proposta di revisionare la Costituzione ottiene la maggioranza del numero complessivo dei deputati, ma non quello dei tre quinti dello stesso numero, come è richiesto nel paragrafo 2) del presente articolo, la Camera dei deputati successiva può, nel corso della sua prima sessione, deliberare sulle disposizioni da revisionare; la sua decisione deve essere presa a maggioranza di tre quinti del numero complessivo dei suoi membri.
5) Ogni revisione delle disposizioni della Costituzione che sia stata votata viene pubblicata nella Gazzetta Ufficiale entro i dieci giorni che seguono il voto da parte della Camera dei deputati ed entra in vigore con una decisione speciale della stessa Camera.
6) Nessuna revisione costituzionale è permessa prima della scadenza di un termine di cinque anni dopo l'attuazione della revisione precedente.
L'Istituzione della Commissione Bicamerale rappresenta un'altra brutta pagina della politica italiana.
Va subito aggiunto, però, che peggio della Bicamerale c'era soltanto l'idea di Assemblea Costituente proposta da Segni e Cossiga.
Due soluzioni sulla falsariga di quella cultura dell'emergenza che da sempre contraddistingue il modo di operare dei nostri politici. Un approccio alle questioni schizofrenico, che da un lato pone l'urgenza dell'azione sull'onda dell'emergenza, ma che dall'altro ha la necessità, per il desiderio di operare degli stravolgimenti di sistema a totale vantaggio di questa o quella parte politica ora dominante, di prospettare complicati scenari da palingenesi. E quando si fallisce l'obiettivo, anziché trarne le dovute conseguenze, l'inazione che ne è derivata diventa il motivo di una "nuova emergenza", dando così nuovi spunti ai "nuovisti" di turno per esaltarsi ed autocelebrarsi di fronte alle loro verità rivelate.
Si spiegano così, allora, un'apposita Legge Costituzionale in grado di aprire una particolare Fase Costituente, od una nuova e specifica Assemblea Costituente, come momenti eccezionali e risolutori della vita istituzionale di un paese.
Nulla di peggio!
Ed è in questa contrapposizione, fra soluzioni di emergenza e al tempo stesso di "rinascita", che si è persa, come al solito, la possibilità di procedere a delle semplici modifiche che avrebbero potuto permettere l'avvio di una Fase di riforma scritta NERO SU BIANCO e rispetto alla quale avrebbero potuto prendere parte attiva i cittadini; ma soprattutto, non lesiva dei diritti delle minoranze.
Come detto, per istituire la Bicamerale c'è voluta una Legge Costituzionale apposita.
Ma allora, perché non procedere ad una modifica strutturale dell'art. 138?
E i motivi di tale modifica non mancavano di certo.
Primo su tutti: è assurdo pensare che un Parlamento eletto con sistema maggioritario, e con lo specifico interesse di arrivare a determinare il Governo del paese, possa poi procedere alla riforma della Costituzione. Ma chi è che ha votato per riformare la Costituzione in una data direzione piuttosto che in un'altra?
E nel centrosinistra, tanto per fare un esempio, per quell'assurda logica di voto imposta dal sistema maggioritario, sono stati eletti, con il concorso determinante dei voti di Rifondazione o dei Verdi, dei parlamentari che in tema di presidenzialismo e di azzeramento bipolare starebbero meglio tra le file del Polo che non in quelle dell'Ulivo; parlamentari che, con ogni probabilità, parteciperanno ai lavori della Bicamerale senza di fatto aver ricevuto alcun mandato per farlo e, soprattutto, per farlo in un dato modo.
Altra stortura introdotta dal maggioritario: l'impossibilità, per alcune forze, di essere rappresentate in Parlamento. E se ciò potrebbe avere un senso ai fini della governabilità, ne ha ben poco ai fini della revisione della Costituzione.
E poco o nulla potrebbe correggere questo grave deficit di rappresentatività la possibilità, di fronte ai progetti di riforma approvati da un Parlamento eletto con il maggioritario, di poter votare sempre e comunque un referendum confermativo; un "prendere o lasciare" fortemente condizionato nell'oggetto e senza altra possibilità d'intervento.
A livello di proposta, infatti, i Parlamenti maggioritari sono fortemente contrassegnati dall'assenza sostanziale dell'azione propositiva, di emendamento, della somma degli interessi convergenti delle minoranze non adeguatamente rappresentate a livello istituzionale; interessi di minoranze non rappresentabili grazie alle alchimie istituzionali ma che, per assurdo, potrebbero invece essere maggioranza nel paese reale (5 minoranze al 10% non ottengono deputati contro una sola minoranza meglio organizzata al 30%). E questo fa sì che di fronte alle uniche opzioni offerte dagli interessi di parte della maggioranza parlamentare, e nell'assenza della somma degli interessi comuni delle minoranze non rappresentate, venga considerato normale, fisiologico, scegliere il meno peggio di quello che passa il convento.
Anche perché, nei cittadini è forte la consapevolezza che un NO al referendum confermativo implicherebbe la sospensione dei processi di riforma a data da destinarsi, a cioè quando gli interessi di parte della maggioranza parlamentare riterranno opportuno riproporre la questione. E di fronte a questa eventualità, è forte il rischio che molti "mezzi SÌ" diventino fatalmente dei SÌ pieni.
In altre parole, di fronte al solito ricatto "o ti prendi questa minestra o ti butti dalla finestra, spesso non rimane altra scelta che rispondere come si è risposto a molti degli ultimi referendum che si sono svolti nel nostro paese: "vada come vada, purché si cambi!"
Detto questo, perché non era possibile condividere anche l'idea dell'Assemblea Costituente proposta da Segni e da Cossiga?
Perché ci saremmo trovati di fronte ad un eccesso di delega rispetto al quale non sarebbe stato più possibile intervenire se non soltanto alla fine: anche qui il solito "prendere o lasciare" che, per l'appunto, non lascia alcun spazio ad un reale intervento "di proposta" da parte dei cittadini. Perché un voto per un'Assemblea Costituente finirebbe per costituire una delega in bianco sulle ipotesi e non un voto sui progetti concreti; il tutto, senza per altro aver chiaro fin dove il processo di riforma potrebbe arrivare. In altre parole: una delega senza vincolo alcuno di mandato.
Infine, va ribadito con forza che non può essere permessa a nessuna maggioranza, anche alla maggioranza dei cittadini, la soppressione di quei diritti essenziali per l'espressione politica delle minoranze, a partire proprio da quel diritto di effettiva partecipazione che dovrebbe essere alla base di ogni sistema di democrazia rappresentativa.
E va purtroppo constatato che, di fronte al possibile totalitarismo della maggioranza tipico dei sistemi bipolari (maggioritari o presidenziali che siano), o anche realizzato attraverso un uso distorto degli strumenti genericamente definiti di democrazia diretta (si veda l'uso demagogico e strumentale che è stato fatto dello strumento referendario in assenza di tutele forti per le minoranze), i meccanismi di tutela e di controllo della legittimità costituzionale non sono oggi in grado di sostenere l'attacco portato avanti da una classe politica che non si fa vergogna di agire apertamente in contrasto con la legalità costituzionale: dall'istituzione della Bicamerale e del referendum unico, all'ottusa e irritata reazione di fronte alla pregiudiziale di costituzionalità che fu posta nei confronti della proposta di legge di Rebuffa.
Ed è per tutti questi motivi che appariva e appare quanto mai urgente una modifica strutturale dell'art. 138; una modifica valida per tutte le stagioni, e non soltanto per soddisfare occasionalmente le aspirazioni di questo o di quello.
Nulla in contrario che il Parlamento possa elaborare dei progetti di riforma.
Ma sulla base di progetti finalmente scritti nero su bianco, e rigorosamente coerenti con il sistema delle garanzie, andrebbe poi dato modo ai cittadini di poter intervenire costruttivamente. Anche perché, non è affatto tollerabile che alla fine di un processo di riforma tutto parlamentare e senza specifico mandato, come è quello avviato dalla Legge istitutiva della Bicamerale, non venga data la possibilità di potersi pronunciare separatamente (per poi caso mai da qui ripartire per operare interventi d'integrazione) su ogni singola materia: dalla Forma di Stato alla Forma di Governo, per chiudere il cerchio con il sistema delle garanzie.
Non la farsa di un referendum confermativo "prendere o lasciare", quindi, ma un deciso intervento d'indirizzo, attraverso l'elezione di un apposito Organo di revisione largamente rappresentativo di tutte le espressioni sociali e limitatamente a quei soli progetti di riforma scritti neri su bianco.
Non una delega sulle ipotesi, quindi, ma un mandato fondato su delle proposte chiare e inequivocabili, sul modello di quanto previsto, ad esempio, in testi costituzionali di altri paesi, dove il Parlamento che promuove la revisione viene sciolto di diritto, per far poi proseguire questo lavoro alle nuove Camere.
NERO SU BIANCO. Dovrebbe essere questa la formula sulla quale l'opinione pubblica dovrebbe essere chiamata ad esprimersi per poter poi indirizzare, attraverso l'elezione di un apposito Organo di revisione, la conclusione dei lavori di riforma costituzionale.
Diversamente, procedere senza mandato con un Parlamento eletto per il Governo del paese con metodo maggioritario, o chiedere un'elezione sulle ipotesi e senza vincoli di mandato riguardo all'oggetto della riforma (come fatalmente avverrebbe per un'Assemblea Costituente eccezionalmente costituita), significa voler espropriare i cittadini della possibilità di intervenire propositivamente nelle fasi del processo di riforma: l'ennesima delega in bianco per costringerli a subire, come sempre del resto, la farsa di un pronunciamento popolare sulla base di un mero "prendere o lasciare". Un "prendere o lasciare" reso ancora più odioso, come detto, dall'impossibilità di potersi esprimere sulle singole discipline costituzionali.
Per tutte queste ragioni, è divenuto urgente ripristinare un sistema di garanzie in grado di restituire a tutte le realtà sociali, e non soltanto ad alcune, la possibilità di intervenire concretamente nei processi di riforma istituzionale.
Va quindi, in primo luogo, delegittimata la Fase Costituente che si è aperta con l'istituzione della Bicamerale e del referendum unico: una palese introduzione di meccanismi di revisione appositamente studiati per l'occasione e atti a favorire le aspirazioni di alcune parti politiche a danno di altre. A tal fine, si propone di iniziare da subito una campagna per l'astensione al referendum che dovrebbe concludere i lavori di revisione della Costituzione.
Una campagna da condurre sfruttando tutti i veicoli di comunicazione, anche soltanto e semplicemente apponendo una riga di commento, in calce ai propri interventi, che faccia riferimento all'iniziativa.
E per iniziare, comunicando la propria adesione all'iniziativa, nella speranza di realizzare ben presto un libro di firme ben sostanzioso da porre all'attenzione delle forze politiche e dei mezzi d'informazione.
- Febbraio 1997