A quasi un anno dall'entrata in vigore del nuovo Titolo V, e grazie, soprattutto, ad una sentenza della Corte Costituzionale (282/2002), è possibile tentare un primo bilancio degli effetti, sia concreti che politici, della riforma.

Franco Ragusa


A tale scopo, non si può prescindere da un esame dell'atteggiamento complessivamente tenuto sino ad oggi dal Governo Berlusconi e dai Governi regionali.
Un dato che risalta, è la constatazione di un'inerzia di fondo, a tutti i livelli, che ha significativamente congelato la Riforma del Titolo V, rinviando ad un futuro, ancora da definire, sia l'attuazione della stessa che le eventuali correzioni.
Le Regioni, addirittura, si sono mostrate sin troppo sottomesse di fronte al non fare, o al troppo fare in senso centralista, del Governo Berlusconi: poco o nulla sul fronte dei nuovi Statuti; poco o nulla relativamente alle potestà legislative che il nuovo art. 117 affida alle Regioni.
Fosse stato l'Ulivo al Governo, con ogni probabilità avremmo invece assistito ad un assalto all'arma bianca da parte dei Governatori polisti, Galan, Formigoni e Ghigo in testa, sicuramente più risoluti nel reclamare ciò che il nuovo Titolo V della Costituzione assegna loro.
Contrariamente a questo quadro istituzionale, dettato più dal colore politico dei Governi che dal rispetto delle norme, dalla Consulta, attraverso la sentenza 282/2002 (giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche 13 novembre 2001, n. 26, recante “Sospensione della terapia elettroconvulsivante, della lobotomia prefrontale e transorbitale e altri simili interventi di psicochirurgia”, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 17 gennaio 2002), sono arrivate le prime indicazioni riguardo ad una riforma costituzionale pienamente vigente e produttiva di effetti concreti.
Ad onestà del vero, per alcune delle questioni affrontate, sono stati in gran parte ribaditi concetti facilmente desumibili e già all'ordine del giorno, per quanto inattuati, del dibattito politico.
 
In primo luogo, relativamente al modo d'individuazione dei limiti delle competenze regionali e rispetto delle stesse, la Consulta ha affermato che si "deve oggi muovere non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento regionale, quanto, al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale".
In altri termini, la potestà legislativa delle Regioni è oggi attribuita in via generale, limitata soltanto dalle riserve, esclusive e parziali, di competenza statale, come del resto facilmente desumibile dalla lettura del comma 4, art. 117 Cost: "Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato".

Nell'affrontare le eventuali invasioni di campo ad opera della legge regionale impugnata, la Corte ha inoltre avuto modo di estendere il suo esame riguardo alla reale portata di contenuto di alcune delle materie di esclusiva competenza statale.
E' bene sottolineare, al riguardo, l'elevato numero delle contestazioni oggetto del ricorso del Governo, per lo più facenti riferimento ad aspetti non direttamente riconducibili, ma conseguenti, alla scelta di adottare o meno determinate pratiche terapeutiche.
La legge regionale impugnata, infatti, nell'intervenire sulle pratiche terapeutiche ammesse, sarebbe suscettibile di alterare, indirettamente, le regole della responsabilità civile degli operatori sanitari, andando così ad incidere, per questa via, sull'ordinamento civile, materia, questa, di esclusiva competenza statale.
Al riguardo, è già disponibile un'ampia letteratura, favorevole, in via generale, alle obiezioni sollevate dal Governo.
Secondo questa "scuola di pensiero", la presenza, in Costituzione, della specifica figura delle materie concorrenti, per le quali la competenza statale è ridotta alla sola determinazione dei principi generali (materie concorrenti), non va considerata come una un'assegnazione di potestà legislativa tale da rendere ammissibili interventi legislativi regionali che potrebbero, anche soltanto indirettamente, sfiorare le materie riservate alla competenza esclusiva statale.
Diversamente, c'è invece motivo di ritenere plausibile un'interpretazione di tipo estensivo delle competenze regionali, proprio per quelle materie rispetto alle quali si dice che la competenza statale è ridotta alla sola determinazione dei principi.
L'art. 117, infatti, non soltanto fa un elenco delle materie strettamente riservate alla legislazione statale, ma elenca pure un'altra serie di materie specificatamente riservate, questa volta, alla competenza regionale, con il solo limite della determinazione dei principi generali affidata allo Stato: Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
Alla luce di questa puntuale definizione delle competenze legislative e dei limiti d'intervento statali in riferimento ad uno specifico elenco di materie, come leggere il successivo passaggio costituzionale che affida alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato?
Nel caso delle materie concorrenti, infatti, non ci troviamo di fronte ad un'attribuzione di competenza legislativa regionale fondata sull'assenza di riserve a favore della legislazione statale, bensì, ci troviamo di fronte ad un elenco di materie espressamente riservate alla competenza legislativa regionale, e per le quali si indicano espressamente i limiti dell'intervento legislativo statale.
 
A precisare, in ogni caso, se e quanto l'elastico possa tendere da una parte o dall'altra, è giunta la sentenza della Corte Costituzionale.
Nel caso specifico in esame, e senza lasciare spazio a dubbi interpretativi, la Consulta è stata ferma nell' "escludere che ogni disciplina, la quale tenda a regolare e vincolare l’opera dei sanitari, e in quanto tale sia suscettibile di produrre conseguenze in sede di accertamento delle loro responsabilità, rientri per ciò stesso nell’area dell’”ordinamento civile”, riservata al legislatore statale. Altro sono infatti i principi e i criteri della responsabilità, che indubbiamente appartengono a quell’area, altro le regole concrete di condotta, la cui osservanza o la cui violazione possa assumere rilievo in sede di concreto accertamento della responsabilità, sotto specie di osservanza o di violazione dei doveri inerenti alle diverse attività, che possono essere disciplinate, salva l’incidenza di altri limiti, dal legislatore regionale."
 
Anche tenendo conto della particolarità della questione trattata, non può sfuggire che vi sia stata, da parte della Consulta, ai fini dell'individuazione della materia oggetto della legislazione regionale, un'opera di definizione di criteri d'indagine più rigorosi (Altro sono infatti i principi e i criteri della responsabilità ... altro le regole concrete di condotta), che non la semplice constatazione, inevitabilmente onnicomprensiva, dell'astratta presenza di "effetti collaterali" indirettamente riconducibili alle materie di esclusiva competenza statale (suscettibile di produrre conseguenze in sede di accertamento delle loro responsabilità).
 
Tra le materie esclusive, invece, che potremmo definire di contenimento, una sorta di "implied power clause", nel senso della disponibilità in capo al legislatore statale di significativi margini d'intervento oltre quanto previsto dalla rigida lettura delle competenze, vi sarebbe la previsione, al comma 2 punto m, art. 117 Cost., della "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale". Riguardo a questa attribuzione, la Consulta si è infatti espressa nel senso di non considerarla "una “materia” in senso stretto", bensì "una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle."
Se da un lato, quindi, si stringono le maglie per l'impugnabilità delle leggi regionali da parte dello Stato; dall'altro lato non è possibile escludere l'esercizio di una competenza statale, di tipo più generale, tale da investire tutte le materie, e questo al fine di "assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite".
Da stabilire, quindi, quanto, attraverso questa competenza, il legislatore statale possa, di fatto, allargare lo spettro reale del proprio intervento, anche, soprattutto, in riferimento ai processi d'instaurazione, innanzi alla Corte, delle questioni di legittimità costituzionale.
Lasciando da parte un attimo gli aspetti specifici affrontati nella sentenza, riguardo ad alcuni limiti certi di questa competenza il testo costituzionale non lascia dubbi. Laddove, infatti, nella Costituzione tedesca si parla d'interventi finalizzati a garantire "eguali condizioni di vita" (art. 72), nel testo costituzionale italiano questi interventi non dovrebbero spingersi oltre la determinazione (art. 117, comma 2, punto m) e tutela (art. 120, comma 2) dei livelli essenziali delle prestazioni. Si tratta di una differenza di non poco conto: nel caso tedesco, i diritti che dovrebbero valere su tutto il territorio si autodeterminano, in modo certo, indipendentemente dagli umori della politica, sulla base del principio delle eguali condizioni di vita; nel caso del testo italiano, invece, la parità di trattamento "ad un certo livello" (livelli essenziali) costituzionalizza la possibilità che possano convivere, su tutto il territorio nazionale, diversi livelli di godimento dei diritti a seconda della Regione di residenza.
A ciò si aggiunga che resta in ogni caso da stabilire se e come la competenza statale a determinare i livelli delle prestazioni possa spingersi sino al punto d'individuare, financo, i mezzi attraverso i quali realizzare i fini preposti; se non rientri, cioè, nella competenza delle Regioni, l'individuazione, al fine di garantire i livelli delle prestazioni sulla base delle particolarità locali, degli strumenti legislativi più adatti.

Ritornando alla sentenza 282/2002, pur tenendo conto della specificità delle questioni affrontate, si ha netta la sensazione di un orientamento verso la non rilevanza della questione sollevata dal Governo in riferimento ai livelli delle prestazioni. L'adozione o meno di determinate pratiche terapeutiche, infatti, più che investire l'ambito delle competenze statale sui livelli essenziali, in una sorta di logica conseguenza tra fini e mezzi, sino al punto, addirittura (secondo i rilievi mossi dal Governo Berlusconi), da non potersi ammettere decisioni logicamente collocabili preliminarmente alla determinazione dei livelli delle prestazioni (in altre parole, secondo questa logica, qualsiasi attività legislativa delle Regioni che, in astratto, potrebbe essere ritenuta preliminare a quella che potremmo ben definire "astratta potenzialità del legislatore statale", su tutte le materie, di poter determinare i livelli delle prestazioni, dovrebbe ricadere nel vizio d'incostituzionalità), si pone, più correttamente, sul terreno della conformità dei mezzi adottati in riferimento a quelli che sono i principi fondamentali i quali, soltanto, possono indirizzare le scelte del legislatore.
 
   "Nella specie la legge impugnata non riguarda tanto livelli di prestazioni, quanto piuttosto l’appropriatezza, sotto il profilo della loro efficacia e dei loro eventuali effetti dannosi, di pratiche terapeutiche, cioè di un’attività volta alla tutela della salute delle persone, e quindi pone il problema della competenza a stabilire e applicare i criteri di determinazione di tale appropriatezza, distinguendo fra ciò che è pratica terapeutica ammessa e ciò che possa ritenersi intervento lesivo della salute e della personalità dei pazienti, come tale vietato.
Sono coinvolti bensì fondamentali diritti della persona, come il diritto ad essere curati e quello al rispetto della integrità psico-fisica e della personalità del malato nell’attività di cura, ma, più che in termini di “determinazione di livelli essenziali”, sotto il profilo dei principi generali che regolano l’attività terapeutica.
4. – Il punto di vista più adeguato, dunque, per affrontare la questione è quello che muove dalla constatazione che la disciplina in esame concerne l’ambito materiale della “tutela della salute”, che, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, costituisce oggetto della potestà legislativa concorrente delle Regioni, la quale si esplica nel rispetto della competenza riservata allo Stato per la “determinazione dei principi fondamentali”."

Al di là del chiaro tono complessivo delle affermazioni, è però d'obbligo sottolineare come il passaggio, relativamente alla possibile incidenza della legge regionale in esame con i livelli delle prestazioni, si presti ad ulteriori elaborazioni. Le formule adottate non sono infatti tali da permettere di escludere, categoricamente, la possibile invasione della competenza statale da parte della Regione: "la legge impugnata non riguarda tanto livelli di prestazioni"; "ma, più che in termini di “determinazione di livelli essenziali”"; "il punto di vista più adeguato".
 
Lasciata, quindi, in qualche modo in sospeso la questione, la Corte è passata ad esaminare la "potestà legislativa concorrente delle Regioni, la quale si esplica nel rispetto della competenza riservata allo Stato per la “determinazione dei principi fondamentali”", per arrivare, attraverso questa via, alla dichiarazione d'illegittimità costituzionale della legge regionale in esame per il non rispetto, appunto, dei principi fondamentali.
 
Importante, ai fini generali, il modo di procedere adottato dalla Corte per l'individuazione di questi principi, che possono trarsi (confermando, per altro, un orientamento generale sulla carta già largamente condiviso), anche in assenza di "leggi statali nuove, espressamente rivolte a tale scopo. Specie nella fase della transizione dal vecchio al nuovo sistema di riparto delle competenze, la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore".
Per lo specifico della legge regionale in esame, inoltre: "Non può ingannare la circostanza che non si rinvengano norme di legge statale esplicitamente volte a disciplinare l’ammissibilità delle pratiche terapeutiche in esame, o delle pratiche terapeutiche in generale. Anzi l’assenza di siffatte statuizioni legislative concorre a definire la portata dei principi che reggono la materia, e che, nella specie, non possono non ricollegarsi anzitutto allo stesso sistema costituzionale."
Al di là degli aspetti particolari trattati, è agevole trarre, da queste considerazioni, una regola di tipo generale:
   per l'esercizio delle competenze legislative nell'ambito delle materie concorrenti non è necessario attendere, nel concreto,  che il Legislatore statale si svegli dal proprio torpore mettendo finalmente mano a tutta la materia, potendo le Regioni avere, come riferimento, in relazione all'individuazione dei principi fondamentali riservati alla competenza statale, la legislazione statale già in vigore, nonché, ovviamente, il sistema costituzionale stesso.

Le Regioni sono già da ora, quindi, nella possibiltà di poter esercitare, appieno, le proprie competenze nell'ambito delle materie concorrenti.
Da questa semplice considerazione, dovrebbero discendere alcune conseguenze sul piano istituzionale.
Una questione che sicuramente merita di essere approfondita, è quella relativa alle influenze che il nuovo Titolo V potrà esercitare sull'istituto del Referendum Abrogativo, essendo questo uno degli strumenti a disposizione per intervenire sulla legislazione statale.
Come si orienterà, ad esempio, la Consulta, quando dovrà decidere dell'ammissibilità del quesito referendario presentato da Rifondazione Comunista per la modifica dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori?
Sulla materia, "tutela e sicurezza del lavoro", a partire dall'ottobre 2001 le competenze statali sono limitate e circoscritte alla sola determinazione dei principi fondamentali; alle Regioni, quindi, la scelta dei mezzi più idonei per la realizzazione di questi principi. Al riguardo, è forse bene ricordare un passaggio chiave della sentenza (prima dell'approvazione del nuovo Titolo V) di ammissibilità del referendum abrogativo dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori:

 

 (sentenza 46/2000) ... è da escludere, tuttavia, che la disposizione che si intende sottoporre a consultazione, per quanto espressiva di esigenze ricollegabili ai menzionati principi costituzionali, concreti l'unico possibile paradigma attuativo dei principi medesimi. 
Pertanto, l'eventuale abrogazione della c.d. tutela reale avrebbe il solo effetto di espungere uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro, che risulta ricondotta, nelle discipline che attualmente vigono sia per la tutela reale che per quella obbligatoria, al criterio di fondo della necessaria giustificazione del licenziamento. Né, una volta rimosso l'art. 18 della legge n. 300 del 1970, verrebbe meno ogni tutela in materia di licenziamenti illegittimi, in quanto resterebbe, comunque, operante nell'ordinamento, anche alla luce dei principi desumibili dalla Carta sociale europea, ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30, la tutela obbligatoria prevista dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificata dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, la cui tendenziale generalità deve essere qui sottolineata
 
Nel caso in esame, addirittura, si trattava di tutelare principi costituzionali per i quali, in ogni caso, la Corte ritenne possibile ammettere il quesito abrogativo sulla base della persistenza, nell'ordinamento, di altre norme formalmente in grado di garantire la sanzionabilità e, quindi, l'obbligatoria tutela nei confronti del licenziamento illegittimo; sancendo così, per il caso specifico, ma potremmo dire più in generale, l'esistenza di una distinzione netta tra il contenuto dei principi ed i mezzi idonei (senza per altro sentire l'esigenza di valutare nel merito "se più o meno" idonei) a realizzarli.
Distinzione alla base, del resto, del sistema di competenze concorrenti realizzato con il nuovo Titolo V.
Certamente, prevedere oggi, ciò che la Corte Costituzionale riterrà più opportuno di fronte al quesito referendario proposto da Rifondazione comunista, non è impresa tra le più facili; ciò che però non può essere escluso a priori, tanto più visto l'orientamento generale espresso con la sentenza 282/2002, è la possibilità che la Corte individui dei sopraggiunti motivi impliciti, derivanti dall'entrata in vigore delle nuove norme costituzionali, tali da costringerla ad allargare la propria giurisprudenza in materia di ammissibilità dei referendum, con le conseguenze che è facile immaginare.
Conseguenze che non potrebbero, a questo punto, non riflettersi anche sull'operato degli altri soggetti istituzionali.
Sarebbe infatti paraddossale la coesistenza di Organi di garanzia ognuno con un proprio indirizzo: da un lato la Consulta, che potrebbe non ammettere quesiti referendari per i motivi su esposti; dall'altro lato un Presidente della Repubblica che, con troppa facilità, potrebbe invece chiudere gli occhi anche di fronte a provvedimenti palesemente invasivi delle competenze regionali, evitando così di esercitare il diritto-dovere di rinviare le leggi alle Camere.