Be', per essere un Governo con la vocazione del federalismo più esasperato, al punto che il ministro Bossi non perde occasione per minacciare la secessione, a leggere le motivazioni di incostituzionalità contenute nella sentenza N. 215 della Consulta si rimane senza parole.
Certo, il Governo Berlusconi-Bossi-Fini non è nuovo a questi e ben altri falli di incostituzionalità; nel caso specifico, però, in barba ai tanti proclami leghisti, erano le competenze delle regioni ad essere messe in discussione dall'art. 4 del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, proroga di termini).

 
Con il solito colpo di mano del Governo, infatti, attraverso la decretazione d'urgenza vennero sostanzialmente sottratte alle regioni buona parte delle competenze in materia di interventi relativi alla trasmissione, distribuzione e produzione dell’energia, affidandone l'individuazione al Consiglio dei Ministri. Interventi da realizzare, peraltro, con capitale prevalentemente o interamente privato e, soprattutto, con mezzi e poteri straordinari.
L'errore compiuto, facilmente individuato dalla Consulta, non è, ovviamente, da considerare casuale. Ancora una volta, infatti, si sono evidenziate le reali intenzioni di chi vorrebbe dividere il Paese per meglio fare gli affari propri. Si è federalisti quando si tratta di disarticolare il sistema unitario dei diritti e delle tutele; lo si è un po' meno e con una visione di tipo coloniale da parte di alcune regioni quando si tratta, invece, di favorire i poteri forti e scaricare solo sui più deboli le conseguenze delle imposizioni provenienti dal governo centrale.
Una contraddizione ben evidenziata dalla sentenza della Consulta.
Nel non escludere, infatti, "che in materia di produzione, trasmissione e distribuzione dell’energia ... l’individuazione e la realizzazione dei relativi interventi possa essere compiuta a livello centrale, ai sensi dell’art. 118 della Costituzione", quali le "valide e convincenti argomentazioni" per spostare una simile mole di competenze con la motivazione dell'urgenza, in riferimento, soprattutto, alla certezza degli obiettivi da raggiungere?
Ma è proprio sui modi con i quali realizzare gli obiettivi e risolvere l'urgenza che il decreto ha mostraro tutti i suoi limiti.
Affidando la realizzazione delle opere al "capitale interamente o prevalentemente privato, che per sua natura è aleatorio", sia in riferimento all'interesse dei privati ad investire che all'entità del possibile investimento, è sin troppo evidente che non era l'urgenza ciò che stava più a cuore a chi ha emanato il decreto legge, bensì altri interessi: chi e cosa può infatti garantire che il privato investirà? E quanto investirà?
Trattandosi, peraltro, "di iniziative di rilievo strategico, ogni motivo d’urgenza" avrebbe dovuto invece "comportare l’assunzione diretta, da parte dello Stato, della realizzazione delle opere medesime".
Per questo motivo, l'evidente sproporzionalità dell'intervento legislativo: "Se, infatti, le presunte ragioni dell’urgenza non sono tali da rendere certo che sia lo stesso Stato, per esigenze di esercizio unitario, a doversi occupare dell’esecuzione immediata delle opere, non c’è motivo di sottrarre alle Regioni la competenza nella realizzazione degli interventi."

E il motivo invece c'era. Non realizzato in maniera legittima, come abbiamo visto, ma c'era, in modo particolare per poter imporre la scelta dei siti per l'installazione del redivivo nucleare; come anche per limitare il controllo pubblico nell'affidamento e gestione dell'affare ai privati... e che affare!
Vista la motivazione, però, che in linea di principio non esclude un intervento a livello centrale sulla materia, la partita non è evidentemente chiusa e potrà quindi essere riproposta, nei medesimi termini sotto il profilo degli interessi da privilegiare, con altri strumenti.
Il che, forse, finalmente ci costringerà a prendere seriamente di petto il problema di chi e di quali interessi si dovrebbe occupare una politica con l'ambizione di essere veramente alternativa al bossi-berlusconismo.

Franco Ragusa