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Quali gli effetti concreti che la nuova legge elettorale potrebbe produrre dal lato degli interessi del corpo elettorale? (aggiornato al 7 marzo 2009)

 

 7 marzo 2009 - Nota di aggiornamento
Rileggendo l'approfondimento già proposto nel maggio 2007, si scopre che non c'è nulla da aggiungere anche in seguito alle ultime vicende elettorali.
Le conclusioni alle quali si era infatti giunti sono state confermate dalla scelta dei maggiori partiti politici di anticipare, in larga parte, quanto il referendum si propone con l'impedire l'assegnazione del premio di maggioranza ad una coalizione di più liste.
Al riguardo c'è quindi da fare una prima osservazione: se i  maggiori partiti vogliono, possono già ora decidere se correre da soli (come hanno sostanzialmente fatto alle ultime elezioni) o in coalizione.
Al momento, infatti, nessuno punta la pistola sulla fronte di nessuno e tutti sono liberi di decidere se presentarsi da soli o in compagnia, ma è proprio questa libertà di scelta che il referendum intende abrogare.
Altra osservazione non meno importante: il Porcellum rimarrebbe il Porcellum.
L'assurdo premio di maggioranza, assegnato senza alcun criterio di raggiungimento di un risultato minimo,  rimarrebbe tale ed anzi amplificato nei suoi aspetti peggiori. E' sotto gli occhi di tutti, infatti, come l'attuale maggioranza parlamentare goda, tra i trucchi contabili della legge elettorale, la disaffezione degli elettori verso la bipolarizzazione forzata e l'esclusione dei partiti al di sotto del 4%, del consenso di appena il 36% dell'intero corpo elettorale.
Nessuna possibilità per gli elettori, infine, d'intervenire sulle imposizioni provenienti dai partiti circa i nomi da eleggere. Ed anzi, proprio l'impossibilità di presentare le coalizioni toglierà agli elettori l'unica possibilità che oggi hanno d'intervenire, laddove queste si costituissero, sugli equilibri interni delle coalizioni stesse.

 

Nell'affrontare il merito dell'ennesima campagna referendaria con oggetto la modifica della legge elettorale si dovrà ragionare, necessariamente, su più aspetti.

La prima questione che si pone, ovviamente, riguarda i motivi che in generale dovrebbero spingere a cambiare la legge elettorale.
Per essere chiari: da dove nasce questa nuova urgenza?
Ma soprattutto: si sta cercando di dare risposte per soddisfare l'interesse generale del Paese o, piuttosto, per soddisfare interessi particolari?
Quest'ultima domanda ci porta diritti ad affrontare altre due questioni.
Le intenzioni dei promotori e gli obiettivi, dichiarati e non, che con il quesito referendario potrebbe essere possibile raggiungere; quindi, gli effetti concreti che la nuova legge elettorale potrebbe produrre dal lato degli interessi del corpo elettorale.

 

***

 

Individuati i singoli aspetti, è sin troppo agevole comprendere come nessuno di questi sia disgiunto dagli altri.
I meccanismi elettorali non intervengono in maniera neutra sulla vita partecipativa dei cittadini alla cosa pubblica.
Cancellare con legge arbitraria alcuni partiti, o impedire la formazione e la crescita di un'opinione diversa attraverso meccanismi elettorali fortemente selettivi nei confronti di alcuni e fortemente premianti nei confronti di altri, non fa alcuna differenza ai fini dell'espropriazione della quota di sovranità spettante ad ogni singolo elettore. In modo particolare nella situazione che tutti ben conosciamo, dove: o si ha tempo e modo per impegnarsi nella politica; o si è del tutto esclusi dalla partecipazione politica, privati della possibilità d'intervento nella fase di formazione dei programmi.
Che piaccia o no, è questa la realtà che riguarda la stragrande maggioranza degli elettori.
Senza illuderci troppo con concetti di democrazia partecipativa che esistono solo nell'immaginazione, è bene chiarire che per il cittadino alle prese con i problemi di tutti i giorni non rimangono altri strumenti, una volta esaurito l'appuntamento elettorale, per poter intervenire in maniera attiva, propositiva. Certo, sarebbe auspicabile ambire a qualcosa di meglio che potrebbe forse realizzarsi in un quadro di diversa qualità della vita. Ma non è con gli "auspici" e i "forse" che si può far finta di nulla e soprassedere di fronte alla necessità di raggiungere, nel presente, il traguardo della partecipazione dei cittadini alla "formazione delle scelte" attraverso il diritto di voto.

La realizzazione di questo obiettivo pone, senza dubbio, problemi di difficile soluzione. Su tutti, il rischio di un'eccessiva frammentazione e l'affermarsi di un sistema di veti incrociati che non soddisferebbe nessuno, con conseguente inefficienza dell'azione di governo.
Dal riconoscere i problemi, però, al trasformare questi problemi in interesse primario, il passo è decisamente lungo e fuori luogo.
L'obiettivo di garantire la partecipazione attiva dei cittadini alla formazione delle scelte di governo è però via via venuto meno di fronte al valore, ritenuto superiore, dell'efficienza dell'azione di governo.
In tal senso, l'azzeramento di buona parte delle istanze provenienti dalla società, attraverso il passaggio dal proporzionale al maggioritario, ha di fatto costituito la più fragrante espropriazione del pur minimo potere partecipativo in mano ai cittadini-elettori.
Formalmente liberi di votare e di scegliere, ma sostanzialmente privi del potere d'indirizzo in conseguenza della logica maggioritaria.
Lezione che nel 1994, primo appuntamento elettorale con i collegi uninominali (75% dei seggi assegnati con il maggioritario di collegio; 25% con il proporzionale), ben compresero gli elettori del "Patto per l'Italia": 4 soli seggi conquistati alla Camera dei Deputati nonostante un consenso complessivo di voti nei collegi superiore al 15%. Fu soltanto grazie alla compresenza della quota proporzionale se quel 15% di elettorato riuscì ad ottenere una rappresentanza più significativa.
Per quegli elettori il messaggio fu chiarissimo: le istituzioni non sono in grado di raccogliere le istanze che provengono dai "terzi" anche se condivise da larghe fasce di elettorato. Ma ancora peggio: non può esservi leale competizione di idee in un sistema politico-istituzionale in grado di porre per 5 anni ai margini chi ha difficoltà di collocamento all'interno della forzatura bipolare.

Ma sin qui, potremmo dire, accettando di scendere sul piano logico del dover garantire i numeri per poter governare, poco male.
Perché no? il meccanismo elettorale come spinta per "consigliare", alle forze politiche e agli elettori, maggiore elasticità e minore potere d'interdizione. Meglio rinunziare a qualcosa piuttosto che registrare l'impossibilità di realizzare qualsiasi cosa.
Ma una volta recepito il "consiglio", il problema dell'individuazione degli strumenti in mano agli elettori per indirizzare il programma e scegliere i candidati chiamati a realizzarlo rimane.
Può essere sufficiente, infatti, votare uno schieramento predefinito, piuttosto che un altro, per poter affermare che si è esercitato un reale potere d'intervento nella determinazione dell'azione di Governo?
Evidentemente no!
Quale libertà di scelta e d'intervento reale potrebbe ad esempio esservi nel non rinnovare il voto all'attuale Governo di centrosinistra in conseguenza della politica estera sin qui seguita, quando la politica estera del centrodestra, dal punto di vista degli elettori contrari alle missioni all'estero, non sarebbe diversa se non addirittura peggiore?
E questo è solo un esempio fra tanti di come la forzatura bipolare potrebbe imporsi agli elettori: o si punisce il centrosinistra tanto per punirlo, votando o favorendo indirettamente chi farebbe altrettanto (ma che bella alternanza!); o si è costretti a firmare una cambiale in bianco sulla politica estera, con il rinnovo del consenso, per il timore di una vittoria del centrodestra.
Che in questo meccanismo ci sia qualcosa di assurdo ed intollerabile, quale che sia l'orientamento politico, è sin troppo evidente. Si tratta, allora, di fornire a tutti gli strumenti per poter indirizzare, attraverso il voto, anche al solo fine di ottenere piccoli risultati (che siano tutti a rinunciare a qualcosa, non solo alcuni), l'azione di governo.
La scelta più incisiva che l'elettore può infatti compiere non è tanto quella tra gli schieramenti, quanto quella all'interno degli schieramenti. E' all'interno dello schieramento di appartenenza che serve contare per poter partecipare alla formazione delle scelte di governo, perché nell'ambito della forzatura bipolare il voto allo schieramento è un atto dovuto.
l'80-90% degli elettori, comunque la pensi, ha ben chiaro che non potrebbe mai votare o favorire, indirettamente, lo schieramento a lui lontano, ed è sulla base di questa rendita di posizione che le forze politiche maggiori (dove maggiori, in Italia, ancora significa fortemente minoritarie rispetto al totale) sono riuscite ad imporre la bipolarizzazione forzata dell'offerta politica. Una sorta di "pacchetto chiavi in mano", prendere o lasciare, che va dal programma di governo alle candidature; il tutto con la consapevolezza che per gran parte dell'elettorato non può esservi altra scelta che subire il ricatto, pena la vittoria dello schieramento opposto.

Tutte le considerazioni sin qui svolte sollevano, ovviamente, una serie d'interrogativi.
Alla luce, infatti, delle forzature subite dagli elettori con la legge Mattarella (maggioritario di collegio appena temperato dalla presenza di una piccola quota proporzionale), e ammessa e non concessa la necessità della semplificazione bipolare al fine di garantire l'efficienza dell'azione di Governo, come e perché potrebbe esservi bipolarismo e bipolarismo?
Per quale motivo, cioè, preferire il maggioritario di collegio al maggioritario di coalizione (l'attuale legge elettorale denominata "Porcellum")?
A questa domanda si sono fatti carico di rispondere i promotori del quesito referendario ideato da Giovanni Guzzetta.
Scopo degli odierni referendari (a ben vedere gli stessi di sempre) è infatti quello di eliminare la possibilità, per gli elettori, di poter scegliere un partito all'interno della coalizione.
Il voto ai singoli partiti che compongono la coalizione viene infatti interpretato come il meccanismo diabolico che non consentirebbe di poter esprimere una maggioranza unita, un'azione di Governo efficiente ed il dispiegarsi di un sano bipolarismo. Per questo motivo, la necessità del ricorso al referendum, abrogando tutti i riferimenti della legge elettorale nelle parti che prevede le coalizioni, per costringere i partiti a presentarsi coalizzati in un unico listone e con un unico simbolo. Un solo simbolo ed un elenco di candidati, ordinati secondo gli accordi di partito, lungo come un elenco telefonico (e con la liste bloccate, senza cioè il voto di preferenza, la rissa per la conquista dei primi posti è assicurata).
E sì, Incredibile ma vero, ad essere oggetto delle ire referendarie non sono le decisioni calate dall'alto, dalla scelta delle candidature da imporre agli elettori (con i collegi uninominali o con le liste bloccate non fa differenza) alle 200 o 1000 pagine di programma prendere o lasciare, bensì l'unico strumento che gli elettori hanno oggi a disposizione per poter in qualche modo modellare gli equilibri interni allo schieramento che intendono votare.
Con il Mattarellum abbiamo avuto modo di assistere allo spettacolo vergognoso della spartizione dei collegi tra le forze politiche, il cosiddetto mercato delle vacche attraverso il quale veniva definita la geografia parlamentare interna agli schieramenti e rispetto alla quale gli elettori potevano solo decidere se partecipare a decisioni già prese e non più discutibili o rimanere a casa.
Diversamente, con la legge attuale, piaccia o no che a vararla sia stato il centrodestra, la geografia parlamentare delle due coalizioni è stata decisa dagli elettori e non dagli accordi di spartizione calati dall'alto.
Tornare indietro su questo punto costituirebbe una lesione gravissima per il diritto degli elettori a poter scegliere per indirizzare e partecipare alla formazione dell'azione di governo, ed è bene quindi chiarire che l'obiettivo dei promotori del referendum non è tanto quello di garantire un quadro politico-istituzionale di tipo bipolare, quanto quello di azzerare la dialettica politica.

E' lo stesso Giovanni Guzzetta (La riforma elettorale - Quesiti per un referendum) a chiarire che l'obiettivo, anche al di là del referendum proposto, è quello di superare il bipolarismo così come si è affermato per "aprire la strada ad un orizzonte bipartitico".
In tal senso, sempre per lo stesso Guzzetta: "Il destino dei nuovi partiti politici si gioca pertanto sulla credibilità elettorale di essi come partiti di governo e sulla capacità di riconoscere il ruolo del cittadino come arbitro della competizione".
Eccola qui, immancabile, l'ennesima espressione infarcita di demagogia, tanto altisonante quanto piena di nulla: "il ruolo del cittadino come arbitro della competizione".
Ma arbitro di cosa?
Arbitro di una partita nella quale non potrà mai essere un soggetto attivo. La partita la fanno i giocatori, non l'arbitro.
Guzzetta, non volendo, ha colto nel segno ed è riuscito a sintetizzare alla perfezione l'espropriazione della sovranità popolare che si realizza nei sistemi bipolari dove al cittadino non è data la possibilità, con il voto, di poter incidere sulla formazione dei programmi e sugli equilibri interni delle forze politiche che competono.
I due partiti idealizzati da Guzzetta si "propongono" e al cittadino-elettore non resta che scegliere: uno o l'altro, prendere tutto o lasciare tutto. Questo è il livello di partecipazione politica che ci aspetta in conseguenza del nuovo bipolarismo.
E' bene infatti ripetere e sottolineare che al centro della trasformazione istituzionale proposta dai referendari non vi è il confronto tra un sistema di espressione diretta delle preferenze dei cittadini ("una testa un voto" tipico dei sistemi proporzionali) da sostituire con un sistema che forzi al "bipolarismo". L'attuale referendum impone di scegliere all'interno della logica bipolare.
Da un lato l'attuale legge elettorale, maggioritario di coalizione con distribuzione proporzionale all'interno degli schieramenti; dall'altra parte il bipolarismo-bipartitismo modello Guzzetta, l'assenza, cioè, di un'offerta politica plurale da sottoporre agli elettori perché azzerata da un'esasperata logica maggioritaria.
Ma la competizione interna alle coalizioni, pur nella necessità di giungere ad una sintesi, è il sale minimo della democrazia. Considerare tutto ciò un elemento di disturbo, da sradicare, significa soltanto sottrarre agli elettori l'unico strumento a loro disposizione per poter intervenire sul livello di mediazione politica raggiunta dalle segreterie di partito.
Per riassumere, la questione è di una semplicità disarmante:
- vogliamo o no che gli elettori possano, attraverso lo strumento del voto, intervenire sulla geografia politica delle coalizioni?
- è preferibile che siano gli elettori a decidere quanto debbono contare le diverse sensibilità all'interno delle coalizioni, o è preferibile che siano dei vertici inamovibili (della coalizione o del partito unico "contenitore di cento anime" non farebbe differenza) a decidere chi è quanto potrà rappresentare gli elettori?

 

***

 

Le singole questioni, come premesso all'inizio, sono tutte connesse.
L'esperienza degli ultimi anni, però, ci ha insegnato che è bene non sottovalutare proposte politiche fatte di messaggi semplici che affrontano i singoli aspetti con il chiaro intento di far perdere di vista il contesto più generale.
Mai, però, come per l'attuale legge elettorale, è stato possibile assistere ad atteggiamenti al limite dell'arroganza: si afferma di tutto e il contrario di tutto senza mai farsi carico di dimostrare la fondatezza delle critiche portate avanti.
E' di questi giorni, ad esempio, l'ennesimo attacco alla legge elettorale portato avanti dal Presidente del Consiglio Prodi: i lavori parlamentari vanno a rilento in conseguenza dell'esigua maggioranza che il centrosinistra ha al Senato.
Eccolo qui, quindi, il messaggio semplice ed inconfutabile: l'efficienza dei lavori parlamentari dipende dalla consistenza della maggioranza parlamentare, quindi, dalla legge elettorale; dal che ne discende la necessità di varare una legge elettorale in grado di garantire maggioranze parlamentari sufficientemente ampie.
Diagnosi e cura in un solo colpo.
Peccato, però, che nell'approfondire la lettura della cartella clinica del malato se ne scoprano delle belle.
In primo luogo, contrariamente a quanto si vuol far ritenere, l'attuale legge elettorale non è di tipo proporzionale. Anzi, è vero il contrario. Essendo infatti previsto un consistente premio di maggioranza non può ovviamente esservi distribuzione proporzionale dei seggi tra le forze politiche in competizione: chi arriva primo ottiene più seggi di quelli che potrebbe avere con una corretta ripartizione proporzionale; chi perde ne ottiene meno.
Paradossalmente, se c'è qualcosa che non va nell'attuale legge, non sono le esigue maggioranze, ma la facilità con la quale è possibile ottenere il premio di maggioranza.
Siamo infatti di fronte ad uno dei pochi modelli di legge elettorale in grado di garantire a chi arriva primo, anche per un solo voto, il controllo totale della Camera dei Deputati.
Non a caso, il Presidente Prodi può oggi godere del privilegio di disporre di un'ampia maggioranza parlamentare alla Camera nonostante l'esigua vittoria ottenuta nei seggi (poco più di 20.000 voti).
Certo, per giungere a questo risultato il centrosinistra ha dovuto mettere insieme tanti pezzetti e tanti interessi diversi. Il che, però, sta solo a confermare come il meccanismo di forzatura bipolare (premio di maggioranza e soglie di sbarramento impegnative per i partiti non coalizzati) abbia funzionato alla perfezione.
Come e perché, allora, la necessità di un referendum per ottenere comportamenti aggregativi che già esistono?
Con i numeri della Camera dei Deputati alla mano, infatti, è quanto mai difficile comprendere le critiche all'attuale legge elettorale in relazione alla presunta necessità di garantire il bipolarismo e, con esso, maggioranze parlamentari ampie.
- Il premio di maggioranza e le soglie di sbarramento per i partiti non coalizzati sono tali da "consigliare" l'aggregazione tra le forze politiche;
- il premio di maggioranza, in ogni caso, è in grado di assegnare un largo vantaggio parlamentare al primo arrivato.

Per questi innegabili motivi, le attenzioni di coloro che voglio cambiare radicalmente la legge elettorale hanno sempre fatto riferimento alla composizione dell'altra Camera, il Senato.
Come se la Camera dei Deputati non esistesse, ciò che non ha funzionato al Senato viene strumentalmente utilizzato per mettere in discussione l'intero meccanismo.
Ma cosa non ha funzionato al Senato? La vittoria del centrodestra anziché del centrosinistra?
In effetti, oltre ad aver preso più voti, il centrodestra ha anche conquistato, circoscrizioni estero escluse, la maggioranza di un seggio al Senato.
Ma ciò è dipeso dalla legge elettorale o, piuttosto, dal comportamento degli elettori?
Nessuna legge elettorale può garantire che un elettore voti in egual modo per entrambe le Camere. Ma non solo: siamo di fronte a due corpi elettorali diversi (al Senato si vota dal venticinquesimo anno di età), per cui, ragionevolmente, è possibile ipotizzare risultati anche contrastanti.
Spiegati i motivi che possono portare a risultati diversi tra le due Camere, rimane però da spiegare come mai la vittoria del centrodestra non abbia comportato, per quest'ultimo, un consistente premio in seggi come invece è avvenuto per la Camera dei Deputati a vantaggio del centrosinistra.
Il problema risiede in un vincolo costituzionale che non consente di tenere conto, per l'assegnazione del premio di maggioranza, del risultato ottenuto a livello nazionale: art. 57, 1° comma - Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale, salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero.
E' soltanto per questo motivo, in conseguenza del vincolo costituzionale che di fatto impone l'assegnazione del premio di maggioranza a livello regionale, che il centrosinistra ha potuto limitare la sconfitta, in termini di seggi, sommando i risultati regione per regione, per poi ottenere la maggioranza dei seggi al Senato grazie al risultato della circoscrizione estero.

Riassumendo, si può tranquillamente affermare, senza timore di smentita, che l'esigua maggioranza parlamentare presente al Senato dipende da tre fattori che nulla hanno a che vedere con l'attuale legge elettorale:
- la possibilità, per l'elettore, di esprimere due voti diversi;
- la diversa composizione dei corpi elettorali che eleggono la Camera e il Senato;
- il vincolo costituzionale che impedisce l'assegnazione del premio di maggioranza a livello nazionale.

Dall'individuazione dei problemi l'ovvia domanda:
il ritorno alla precedente legge elettorale, o la legge di risulta che si "approverebbe" attraverso il referendum abrogativo, sono in grado di garantire che l'elettore voti allo stesso modo sia per la Camera che per il Senato? sono in grado di annullare le conseguenze derivanti dal voto espresso da due diversi corpi elettorali? sono in grado di annullare il vincolo costituzionale dei seggi assegnati a livello regionale?
Evidentemente no, e di questo sono consapevoli gli stessi sostenitori del Referendum.
Era sufficiente andare all'incontro sulla legge elettorale del 12 aprile 2006 promosso da Mario Segni per capire, dalle parole del costituzionalista Stefano Ceccanti, che i problemi relativi al Senato sono ben più complessi, quale che sia la legge elettorale.

 

***

 

Un'altra critica portata avanti con forza sin dall'inizio dai detrattori dell'attuale legge elettorale: l'impossibilità, per gli elettori, di scegliere il candidato.
L'aspetto però più curioso di questa critica è che non è in grado di proporre soluzioni rimanendo in vigore l'attuale impianto di legge.
Il voto di preferenza, ad esempio, è da rigettare in quanto non farebbe altro che aumentare la competizione interna, le clientele e il correntismo.
Insomma, per il bene degli elettori è meglio che non solo gli venga impedito di scegliere i partiti all'interno della coalizione, ma anche i candidati espressione dei partiti.
Coloro che gestiscono la coalizione e i partiti che la compongono possono dormire sonni tranquilli: una volta decisi gli equilibri interni alla coalizione e una volta fatti i nomi della lista bloccata (con il Mattarellum i collegi) la questione è chiusa, ed ognuno vedrà così salvaguardata la propria fetta di potere.
Tutti i partiti, per altro, in fase di confronto sulla fantomatica "bozza Chiti", si sono espressi contro la reintroduzione del voto di preferenza.
Del resto, dopo l'esperienza dell'unica tornata elettorale svoltasi con la preferenza unica, è facile comprendere i timori di chi non ha alcuna intenzione di mettersi alla prova.
Il risultato delle ultime elezioni svolte con il sistema proporzionale, infatti, lasciò intravedere la fine degli interessi clientelari che potevano svilupparsi all'interno dei partiti, prima esercitati attraverso la presentazione di candidature fasulle, legate ad una miriade di piccoli interessi locali e clientelari, finalizzate soltanto a portare voti ad altri, al miglior offerente.
Da un'elezione all'altra divenne difficile controllare i comportamenti degli elettori che, attraverso la scelta di un unico candidato, scoprirono l'importanza di votare per candidati veri e non fasulli (con la preferenza unica ognuno corre per sé e non può portare vantaggi di rilievo ad altri). Automaticamente, il poter intervenire in maniera concreta negli equilibri interni del partito votato significava anche indirizzarne la politica.
Il seguito purtroppo lo conosciamo. L'introduzione del maggioritario dei collegi uninominali rimise le cose al loro posto, con l'elettore costretto ad accettare l'unica candidatura proposta dal partito o dalla coalizione da sostenere.
I candidati uninominali costituiscono, infatti, una lista bloccata per almeno l'80-90% degli elettori.
Il voto al candidato dei collegi uninominali è stato e sempre sarà una finzione, perché delle due l'una: o si vota l'uomo; o si vota per un programma ed un partito (o una coalizione) che può aspirare a vincere e governare, con i candidati eletti chiamati soltanto ad osservare la disciplina di partito (o di coalizione).
Siamo di fronte a due tesi che non possono coesistere e, per quanti sforzi di comprensione si possano fare, è sin troppo evidente come una condizione escluda l'altra, tanto più che con il sistema maggioritario l'elettore è pressato dall'esigenza di dover esprimere un voto utile, un voto, cioè, che non sia da subito condannato ad essere gettato nella spazzatura, altrimenti tanto varrebbe rimanere a casa.

Un'altra soluzione da percorrere che viene insistentemente proposta per la scelta dei candidati: le primarie.
Primarie da svolgersi prima delle elezioni, però, e non durante le elezioni attraverso il voto di preferenza.
In altre parole, ciò che non ha senso far scegliere all'elettore quando si reca alle urne, diventa improvvisamente sensato se il tutto si svolge nel piccolo dell'organizzazione partitica.
Rischi di clientele, correntismo e quanto altro via: il meccanismo delle primarie non sembrerebbe soffrire di questi guasti.
Si tratta, evidentemente, di un'interpretazione di comodo. Tanto più è ristretto il corpo elettorale, infatti, e quello delle primarie o delle assemblee di sezione lo è di molto, tanto più diventa facile comprare consensi ed esercitare pressioni.

***

 

Per concludere, non vi è dubbio che vi sono questioni di funzionalità complessiva del sistema che l'attuale legge elettorale non è in grado di risolvere.
Si tratta, però, di problemi che qualsiasi legge elettorale non potrebbe risolvere, come ad esempio una diversa consistenza della maggioranza di governo tra le due Camere rappresentative.
Per altri problemi, quali il garantire i numeri per la formazione di un governo stabile ed efficiente (dove l'efficienza, ovviamente, viene variamente interpretata a seconda dei punti di vista), si deve fare particolare attenzione a quelle soluzioni che potrebbero comportare la drastica riduzione del potere d'intervento della sovranità popolare.
Per questo motivo, se è la democrazia ciò che abbiamo più a cuore, non ha alcun senso affidare all'ingegneria elettorale la soluzione di problemi quali l'efficienza dell'azione di governo laddove ciò potrebbe comportare l'instaurarsi di un regime oligarchico.
Ed è in riferimento a questo banalissimo principio, non il contrario, che l'attuale legge elettorale potrebbe necessitare alcuni correttivi.
Come già ricordato, il meccanismo del premio di maggioranza è tale da garantire la maggioranza parlamentare anche in seguito alla vittoria per un solo voto.
Rimanendo in un ambito sostanzialmente bipolare (due liste o partiti con alle spalle la quasi totalità dell'elettorato), il premio potrebbe essere sì elevato, ma ancora inferiore alle 2 cifre percentuali.
Diversamente, è sufficiente la presenza di una terza forza di peso (in ipotesi tre forze politiche intorno al 32-35%), per far scattare premi di maggioranza esageratamente premianti; lo stesso problema, ovviamente, nell'ambito del maggioritario di collegio, dove chi arriva primo, al 25 o al 51% non fa differenza, prende l'intera posta.

Individuato il punto di maggiore criticità dell'attuale legge elettorale, è quanto mai curioso constatare come le proposte referendarie potrebbero accentuare, anziché attenuare, i problemi relativi alla frammentazione.
Venendo infatti meno la possibilità di rivolgersi direttamente al proprio elettorato, anche facendo parte di una coalizione più ampia, e tenendo presente i problemi che inevitabilmente sorgeranno al momento di decidere la collocazione dei candidati nelle liste bloccate (liste lunghissime dove i primi nell'elenco hanno la certezza dell'elezione e dove da metà in poi si è a rischio), sarà forte il rischio della presenza di più liste.
Con ogni probabilità, però, è proprio questo l'obiettivo principale, non dichiarato, perseguito dai promotori del referendum: creare le condizioni per ostacolare la formazione di larghe coalizioni, al fine di avere liste concorrenti più omogenee e rappresentative di meno interessi.
Ciò che infatti preoccupa i fondamentalisti della governabilità non è la frammentazione delle forze politiche prima delle elezioni: in questa fase non c'è alcun interesse a che molti interessi diversi possano trovare un momento di sintesi che accontenti tutti.
Molto meglio che ognuno corra per sé, affinché il premio di maggioranza finisca per essere assegnato a forze politiche molto omogenee.
Creare le condizioni per il disaccordo, quindi (l'inevitabile contrattazione per la collocazione dei candidati nel listone bloccato), con lo scopo di avere non più due grandi coalizioni rappresentative di molti interessi, bensì due grandi partiti, secondo il più classico degli schemi maggioritari, in grado d'imporsi agli elettori: il ricatto del voto utile verso le uniche forze politiche in grado di vincere, anche per un solo voto (al 35 o 49% non farebbe differenza ai fini dell'assegnazione del premio di maggioranza), le elezioni.