Siamo alle solite. La Cassazione decide di sollevare la questione di costituzionalità della legge elettorale, inviando gli atti alla Consulta, ma di approfondire le conseguenze che, logicamente, da questa decisione dovrebbero discendere, non se ne parla proprio.
Di fatto siamo già alla “mezza notizia”, utile solo per sostenere, con buona pace dell’interesse dei cittadini, i soliti interessi di parte: se la legge elettorale potrebbe essere incostituzionale, la si cambia senza neanche attendere la Consulta e il problema non c’è più.
Per cui, anziché prendere atto che l’attuale Parlamento potrebbe essere il frutto di una legge elettorale incostituzionale, quindi scarsamente legittimato ad intervenire su “questioni di sistema”, è iniziata la gara per affrettare i tempi: e quale miglior soluzione se non quella di ritornare, come chiedevano i firmatari del referendum non ammesso dalla Consulta lo scorso anno, alla precedente legge elettorale, il Mattarellum? Senza il 25% di quota proporzionale, poi, sarebbe anche meglio.
 
Rispetto a queste frenesie e semplicità di soluzioni è quindi bene fare chiarezza da subito.
 
In primo luogo vi è da ricordare che all’inizio dell’estate 2011 venne promossa, dal Comitato Passigli-Ferrara-Sartori, una raccolta di firme per tre quesiti finalizzati ad abrogare il premio di maggioranza sia al Senato che alla Camera, mantenendo soglie di sbarramento uguali per tutti, e per abrogare le liste bloccate.
Si trattava di una concreta possibilità di modificare il Porcellum che avrebbe facilmente superato, per almeno due dei tre quesiti, l’esame della Corte Costituzionale.
Leggendo oggi l’ordinanza con la quale la Cassazione ha rimesso gli atti alla Consulta, si può facilmente verificare come proprio quell’iniziativa fosse la proposta giusta per dissipare i dubbi di costituzionalità oggi sollevati.
Contro quella proposta referendaria, però, partì da subito la fatwa del fondamentalismo maggioritario.
Costituito in fretta e furia il Comitato Morrone-Parisi, vennero proposti due quesiti abrogativi, palesemente inammissibili, con l’unico risultato di aver oscurato e spaccato il fronte referendario che si era costituito intorno al Comitato Passigli-Ferrara-Sartori.
 
Ma al di là delle considerazioni circa le reali intenzioni che si celavano dietro l’iniziativa referendaria che proponeva la reviviscenza del Mattarellum, vi è ora da chiedersi se e quanto questa soluzione potrebbe in ogni caso rispondere alle esigenze per le quali la Cassazione ha ritenuto di dover inviare gli atti alla Consulta; in modo particolare in relazione all’assegnazione di un premio di maggioranza, sino al conseguimento del 55% dei seggi della Camera, Regione per Regione per quanto riguarda il Senato, senza la previsione del raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi.
La lettura della legge e l’esperienza pratica ci dicono che no, gli aspetti problematici che sono stati sollevati non verrebbero meno.
Pur se non espressamente previsto, anche con il Mattarellum, infatti, vi è modo di conseguire molti più seggi dei voti effettivamente ottenuti. Una sorta di ricco premio di maggioranza nascosto che, al pari del Porcellum, è di entità variabile e non soggetto a soglie minime di voti da dover raggiungere.
Facendo riferimento alla sola quota maggioritaria, nel 2001 il premio in seggi per la Camera fu di circa il 14%. In presenza di terzi incomodi di peso, nel 1994 fu di ben il 19%.
Premi in seggi solo in parte attenuati dalla restante assegnazione attraverso il 25% di quota proporzionale (quota che, peraltro, i sostenitori del ritorno al Mattarellum vorrebbero eliminare).
Risultati, questi, inferiori soltanto a quello delle elezioni di febbraio, ma superiori al premio di maggioranza conseguito con il Porcellum dalle coalizioni vincenti nel 2006 e nel 2008.
A questa prima similitudine delle due leggi elettorali, si debbono poi da aggiungere le distorsioni che la diversa distribuzione dei voti può essere in grado di determinare.
Nel 1994, ad esempio, nonostante un ottimo 15,6%, il Patto per l’Italia riuscì ad ottenere solo un misero 0,8% di seggi uninominali. Molto meglio andò invece alla Lega Nord nel 1996: per quanto penalizzata, grazie alla concentrazione del proprio elettorato in una zona ristretta del Paese, con il 10,7% di voti riuscì ad ottenere l’8,2% di seggi uninominali.
Distorsioni ancor più pesanti potrebbero poi verificarsi per quanto riguarda la formazione del Senato.
Se con il Porcellum, infatti, il risultato finale può sembrare affidato al caso, lo stessa impressione la si ricava verificando con quanto potrebbe succedere con il Mattarellum.
Ma andiamo con ordine.
Con il Porcellum, chi vince in Lombardia incassa 27 seggi dei 49 a disposizione.
Nulla di particolarmente drammatico, spiegava D’Alimonte sul sole24ore, purché gli altri 22 seggi vadano alla lista o alla coalizione che, in ipotesi, potrebbe vincere nella gran parte delle altre Regioni. Laddove, invece, questa lista o coalizione fosse costretta a dividere questi 22 seggi con altre forze politiche, salterebbe tutto il meccanismo.
Eccolo quindi qui svelato l’inghippo e la stortura creata dal Porcellum.
Con un quadro politico complesso, potrebbe essere sufficiente conquistare due o tre fra le Regioni con più alto numero di seggi a disposizione per vanificare la vittoria in tutte le altre.
Ma in tal senso, di peggio si verificava con il Mattarellum;  e se solo si provasse a fare un piccolo sforzo di memoria, ci si accorgerebbe che i problemi di gestione del Senato sono iniziati proprio con le elezioni del 1994, con una maggioranza risicatissima per il centrodestra, e questo nonostante la fortissima maggioranza invece ottenuta alla Camera.
Dal confronto di alcuni risultati regionali, il Mattarellum esce con le ossa rotte.
Nel 1994, ad esempio, con il 43,6% dei consensi il Polo delle Libertà riusci ad ottenere ben 35 seggi dei 47 a disposizione della Lombardia, cioè il 74,5%. Ben altro, dunque, dei 27 su 49 seggi che il centrodestra è riuscito ad ottenere con il Porcellum nell’ultima tornata elettorale.
E per scoprire che la lotteria dei risultati incideva in misura diversa, Regione per Regione, è sufficiente fare un altro paio di confronti tra i risultati, più o meno analoghi, ottenuti delle due coalizioni maggiori sempre nel 1994.
In Puglia, addirittura, il centrodestra riuscì ad incamerare il 50% dei seggi, 11 su 22, pur avendo preso meno voti del centrosinistra: 33,37% contro il 33,68% dei progressisti e solo 9 seggi per questi ultimi.
Lo stesso in Sardegna: 3 seggi al centrosinistra con il 31,36% dei voti; 4 al centrodestra con il 28,63% dei voti.
Vi sono poi i 13 seggi su 23 conquistati in Piemonte dal centrodestra, il 56,5% con appena il 36,8% dei voti, mentre ai progressisti non fu sufficiente ottenere un risultato analogo per avere lo stessa percentuale di seggi in Campania: 50% dei seggi con il 37,8% dei voti.
Così come è a svantaggio del centrosinistra il confronto con i risultati di Lombardia e Toscana.
Il Polo Libertà, come già ricordato, ottenne 35 seggi su 47, cioè il 74,5%  dei seggi con il 43,6% dei voti; i Progressisti soltanto 14 seggi dei 19 della Toscana, cioè il 73,7% dei seggi, pur con una ben più alta percentuale di voti, il 49,1% .
Un confronto di risultati che non lascia quindi adito a dubbi e che mostra chiaramente come un eventuale ritorno al Mattarellum non potrebbe risolvere il problema oggi lamentato per il Senato; peggio ancora, poi, nel caso di una legge elettorale fondata sui soli collegi uninominali, senza alcun recupero proporzionale a riequilibrare gli eccessi locali.
 
Franco Ragusa