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Il dibattito sulle riforme costituzionali: modifiche che possano dare un positivo contributo alla qualità della politica e della democrazia
Graziella Mascia - Franco Russo (parlamentari Prc-Se)
Liberazione
Il dibattito avviato alla Camera sulle riforme costituzionali risponde a due esigenze. La prima è quella di non intervenire sull'insieme della Seconda Parte della Costituzione, per rispettare le prescrizioni dell'articolo 138, che consente solo interventi puntuali su singoli istituti, e il significato della vittoria del no nel referendum alla riforma ‘globale' del centro destra, fatti propri dal programma dell'Unione.
La seconda è quella di delineare alcune proposte, coerenti con il programma dell'Unione, che corrispondano a esigenze vere di modifiche costituzionali di cui si parla da anni, se non da decenni, e che allo stesso tempo possano dare un positivo contributo alla qualità della politica e della democrazia.
Non è un caso se, nel momento in cui si è concretizzato con un voto in Commissione l'ipotesi del superamento del ‘bicameralismo perfetto' con un Senato delle Regioni e delle Autonomie, si è di nuovo accesa la discussione sul sistema elettorale tedesco, che trova consensi politici e anche intellettuali (come quello di Sartori).
Gli interventi di revisione costituzionale non possono essere una scelta dettata dalla tattica, ma ciò non toglie che il contesto politico vada preso in considerazione, soprattutto perché il pericolo di una legge elettorale a esito bipartitico che uscirebbe dal referendum, (quella sì) incombe sempre più.
Tuttavia guardiamo al merito, per verificare se le proposte che andranno in aula alla Camera corrispondono ai principi da noi sempre sostenuti.
La questione del bicameralismo paritario è stata oggetto di discussione fin dai lavori della Costituente. Pur usciti dall'amara esperienza del fascismo con la sua Camera delle corporazioni, c'era chi riproponeva un Senato delle professioni a cui si preferì un Senato eletto con suffragio universale sia pure su base regionale: si optò insomma per un sistema parlamentare con una seconda camera di riflessione e bilanciamento. Fin d'allora si era però consapevoli dei suoi limiti, da superare con lo strumento dell'art. 138 Cost.
La storia repubblicana ha confermato questa necessità, dato che la media temporale per l'approvazione delle leggi è stata di 260 giorni, producendo queste difficoltà l'effetto distorto di uno spostamento dell'esercizio della funzione legislativa dal parlamento al governo, attraverso i decreti-legge e leggi-delega: le difficoltà del bicameralismo paritario hanno agevolato la concentrazione nell'esecutivo di poteri decisionali, propri del parlamento.
Inoltre, per venire ai nostri giorni, la modifica del Titolo V del 2001, da noi avversata, è carente - da un punto i vista ordinamentale - di una camera di cooperazione tra legislazione statale (di competenza del Parlamento) e legislazione regionale: così si è provocato un contenzioso tra Stato e Regioni nell'applicazione soprattutto dell'articolo 117 (per la definizione delle competenze).
Si è aperto un conflitto permanente tra centro statale e regioni mentre sarebbe indispensabile una cooperazione imposta dall'affermarsi della ‘legislazione complessa', che richiede processi decisionali multilivello. Si pensi alla materia ambientale, o energetica o formativa: esistono direttive europee, leggi nazionali e poi regionali - non richiede tutto ciò una cooperazione tra livelli legislativi e anche amministrativi? Dove collocare questa sede cooperativa? Nelle Conferenze Stato-Regioni dove gli esecutivi discutono e raggiungono compromessi senza intervento né dei Consigli regionali né del Parlamento? Tanto era palese il ‘buco' istituzionale che le legge di revisione del 2001 previde una Commissione parlamentare con la partecipazione di delegati regionali per affrontare e dirimere l'intreccio delle competenze. Proposta palesemente incostituzionale perché la partecipazione di delegati regionali avrebbe manomesso la sovranità del parlamento, infatti quella Commissione è nata morta, anche se qualche esponente di RC l'ha perfino riproposta come soluzione dei rapporti Stato-Regioni.
È stata la Corte costituzionale in questi anni a definire il quadro dei rapporti tra legislazione parlamentare e legislazione regionale, sobbarcandosi un lavoro tipicamente politico-parlamentare. Da qui la necessità di costruire un Senato delle Regioni e delle Autonomie locali, dove gli enti decentrati possano, sulle materie di loro competenza, intervenire a monte, dialogando con la Camera nella definizione delle scelte legislative. In questo modo si sottrae potere agli esecutivi e si esalta il ruolo delle sedi della rappresentanza.
La Seconda camera non può che rappresentare le istituzioni decentrate, per questo non può essere partecipe della definizione dell'indirizzo politico, e dunque non può esprimere, in quanto non portatrice degli interessi e del voto popolari, la fiducia al Governo. Infine, le competenze legislative del Senato sono limitate a quelle materie o di rilevanza costituzionali (con procedura bicamerale) o concernenti poteri e funzioni degli enti decentrati. Insomma invece di avere come sede di raccordo le Conferenze Stato-Regioni, Stato-Autonomie e poi quella Unificata, si avrà una sede parlamentare, espressione dei Consigli regionali e delle Autonomie che dialogheranno, configgeranno e si accorderanno con la Camera legislativa. Questa avrà, secondo la nostra impostazione, potere decisionale finale sulle leggi, oltre ad avere la competenza esclusiva nella definizione dell'indirizzo politico.
Questo impianto corrisponde, peraltro, a una consolidata posizione della sinistra e dello stesso Pci, e di Ingrao in particolare, che ebbero sempre un approccio monocamerale, in quanto la Camera dei deputati, quale organo della rappresentanza politica, deve essere il soggetto centrale delle attività legislative e del rapporto fiduciario con il governo.
Mettere in primo piano i livelli istituzionali, e le relazioni tra essi, è uno dei modi per contrastare il processo di personalizzazione della politica e dei sistemi di elezione ‘immediata' in Regioni, Comuni e Province. Va ribadito che oggi la concertazione tra questi livelli istituzionali comunque avviene, ma coinvolge solo gli esecutivi, escludendo completamente le assemblee elettive, e fuori da una chiara definizione di ruoli e competenze.
Si è obiettato al sistema di elezione indiretta del Senato e alla riduzione del numero dei parlamentari. Lasciamo da un canto le motivazioni dell'antipolitica, di certo però dopo che le Regioni sono divenute organi legislativi a competenza generale, mentre il Parlamento è detentore di competenze ‘elencate', non si può non ridurre il numero dei parlamentari essendo la produzione legislativa ripartita tra più livelli. La riduzione non può, naturalmente essere tale da minare la rappresentanza, ma non può neppure essere così pletorica solo per soddisfare appetiti di potere: 500 parlamentari sono una ragionevole soluzione che non penalizza la rappresentanza e consente una buona organizzazione dei lavori della Camera. Per parlare di casa nostra: RC-SE, secondo nostri calcoli, perderebbe 7 deputati - un sacrificio sostenibile, che non sminuirebbe la nostra capacità politico-operativa.
Si è obiettato che l'elezioni di secondo grado del Senato significherebbe avallare una spinta al bipolarismo. Il presidenzialismo è contenuto negli Statuti regionali, e i sistemi elettorali fanno del presidente della regione un ‘governatore' il quale tramite il listino sceglie e controlla i voti ‘al margine' della maggioranza, dunque quelli decisivi.
Occorre concentrare l'attenzione su due fatti. Il primo, il Senato rappresenterebbe, secondo la revisione costituzionale proposta, istituzioni e non cittadini, per questo gli sarebbe a ragione sottratta la possibilità di esprimere la fiducia al Governo. Secondo fatto: se il Senato fosse eletto direttamente in base a quale principio si potrebbe giustificare la sottrazione della fiducia dato che avrebbe la stessa legittimazione elettorale della Camera? E, poi, quale legame avrebbero i Senatori con le istituzioni decentrate, dovrebbero farne parte di diritto? E, infine, in questo modo il sistema delle Conferenze Stato-Regioni-Autonomie continuerebbe a essere il centro della cooperazione tra governo e istituzioni decentrate - dando vita a doppioni e conflitti. Si dice che l'elezione indiretta spingerebbe nei Consigli regionali ad accordi con la maggioranza, che però avvengono sempre quando si tratta di scegliere ‘rappresentanti istituzionali', quali sarebbero i futuri senatori. Il voto limitato, come è previsto, è una garanzia per le minoranze e le opposizioni, come dimostrano le esperienze pluridecennali delle elezioni dei membri del CSM o della Corte costituzionale.