Vacilla l’asse col Pd, i veltroniani sospettano la mano di D’Alema dietro le modifiche
La Stampa

Augusto Minzolini

I più delusi sono proprio loro, i veltroniani. Non lo fanno vedere per carità di patria, perché non vogliono alzare bandiera bianca, perché ci sperano ancora ma la bozza che ha licenziato il presidente della Commissione Affari Costituzionali, Enzo Bianco, l’hanno vissuta come un mezzo tradimento con tanto di mandanti. «Bianco - si lamenta l’ex-direttore dell’Unità, Giuseppe Caldarola - è sparito per una nottata e poi ha presentato una proposta che privilegia il rapporto con l’Udc e, di fatto, costringe Forza Italia al “no”. Qui c’è lo zampino di baffino D’Alema». Nel Transatlantico arrivano anche gli echi dello sfogo di Stefano Ceccanti, uno degli esperti che il leader del Pd ha messo in campo. Il suo j’accuse lo pronuncia solo per uso interno e per canali riservati: «Non so a chi risponde Bianco. Probabilmente a D’Alema. Questa è una mezza porcheria che ricalca per buona parte il modello tedesco. Capisco i dubbi di Forza Italia».
 
La loro delusione gli uomini di Veltroni non la portano allo scoperto. Il leader del Pd, che in questa partita ci ha messo la faccia, continua a ripetere che bisogna andare avanti, continua a sferzare i piccoli che non vogliono la soglia di sbarramento e a lanciare segnali distensivi a Berlusconi («senza di lui la legge non si può fare») e avvertimenti: «Chi rompe si assumerà le sue responsabilità». Spera ancora che coinvolgendo il Cavaliere la bozza possa essere cambiata in Parlamento, in senso più maggioritario e più favorevole ai grandi partiti. Nessuno si nasconde, però, che da ieri la strada è in salita. Tant’è che il voto sulla bozza è stato rinviato al 22 gennaio.
 
Insomma, la situazione si è complicata e la sentenza della Corte di oggi potrebbe dare una nuova spinta verso il referendum. Quello che sta venendo meno è, soprattutto, quello che doveva essere il motore dell’operazione veltroniana, cioè l’asse Pd-Forza Italia, sostituito dallo schema «dalemian-rutelliano» che individua in Casini l’interlocutore privilegiato nel centro-destra. Così da una legge che doveva favorire «la vocazione maggioritaria dei due grandi partiti» (Veltroni) ci si è avvicinati al “sistema tedesco” caro a D’Alema e Casini. Una metamorfosi determinata dall’introduzione del «recupero nazionale dei seggi» che il Cavaliere aveva già bocciato nel week-end. E riproponendo per il Senato la legge in vigore nel ‘93. «Una scelta terribile - la bolla Giulio Tremonti -. Un ritorno indietro sul piano dei principi consumato in una notte per compiacere i piccoli». Berlusconi, quindi, avrebbe tutte le ragioni per rompere. Ora deve solo soppesare i «pro» e i «contro». E, magari, decidere tempi e modi del “no”. Se, infatti, deciderà di far saltare il tavolo lo farà dopo aver dimostrato di essersi impegnato seriamente nella trattativa: oggi vedrà Casini e Fini. Detto questo il giudizio dell’ex-premier è tutt’altro che positivo: «E’ un accordo al ribasso - si è limitato a dire ieri con i suoi -. Veltroni è stato costretto dentro il Pd a rimangiarsi buona parte della sua proposta iniziale. Si va verso un proporzionale che dà di nuovo spazio all’opzione centrista. In queste condizioni per noi è molto difficile dire “sì”. In fondo è meglio il referendum. Ci penalizza meno». Se Berlusconi è cauto i suoi «sherpa» e i suoi strateghi sono ancora più pessimisti. Renato Schifani e Fabrizio Cicchitto parlano all’unisono di «passo indietro». Mario Valducci è ancora più esplicito: «Noi l’inciucio lo possiamo fare solo per una legge elettorale maiuscola, ma per questo schifo che ci frega?». L’unico che tiene aperta l’ipotesi dell’intesa è Gianni Letta che usa un unico argomento: «Se Berlusconi rompe rischia di riprendersi la patente di inattendibile».
 
Un po’ poco perché con un accordo a queste condizioni, il Cavaliere ha più da perdere che da guadagnare. Deve assecondare la politica di Casini che non per nulla ieri era strafelice: «Berlusconi ha ottenuto parte di quello che voleva ma non può pensare di poter decidere su tutto».
Contemporaneamente deve prendere atto che i maggiorenti del Pd hanno dato a Veltroni solo i gradi di leader ma non il comando sul campo. Senza contare che l’«intesa» con questa maggioranza dopo lo scandalo dei rifiuti a Napoli e la vicenda del Papa a cui è stato impedito di parlare all’Università della Sapienza pone problemi non indifferenti. Tantopiù che la mozione di sfiducia contro il ministro dell’ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, al Senato e il nuovo disegno di legge contro l’«omofobia» contestato dai teodem del centro-sinistra possono trasformarsi in nuove occasioni per mandar giù il governo. A cui si aggiunge un’altra constatazione di cui il tesoriere del partito, Rocco Crimi, si fa portavoce: «Io alle minacce di crisi dei piccoli non credo. E’ più facile che sia Rifondazione a far zompare Prodi se si andrà al referendum».
 
Ecco perché il partito del referendum si sta ingrossando sia nella maggioranza, sia nell’opposizione. «Sta diventando uno sbocco inevitabile» osserva il forzista Brancher. «A questa condizioni meglio il referendum» ripete il leghista Maroni. Lo dicono i prodiani di ogni religione, dalla Bindi, alla radicale Bonino a Parisi. E le aperture di Fini di ieri sulla bozza Bianco vanno interpretate in chiave referendaria: «Con quella bozza non sono io che mi aggiungo all’accordo Forza Italia-Pd-Udc-Rifondazione, ma sono loro che si dividono. Qui si va dritti al referendum». E a sentire i bene informati ieri sera lo stesso Veltroni nel commentare questo marasma esprimeva una «filosofia» simile a quella del Cavaliere: «Preferisco una nuova legge, ma se arriverà il referendum non mi strapperò i capelli».