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Purtroppo, di nuovo in evidenza: Stop Racism
di Patrizia Turchi
Non v'è dubbio che la parola crisi sia entrata violentemente nei nostri pensieri così come nella nostra vita materiale e quotidiana. E non v'è dubbio che tale termine sia stato rinforzato grandemente non solo attraverso le azioni di governo ma anche con un rimbombo particolarmente assordante da parte dei media.
 Un esempio calzante è quello rappresentato dal termine “spread”, termine tecnico del quale nessuno aveva mai sentito parlare fatti salvi i pochi che della finanza hanno fatto un mestiere, ma che improvvisamente diventa il perno delle conversazioni al bar o allo stadio, sull'ascensore piuttosto che dal panettiere, e di come sia -nell'immaginario popolare- diventato il termometro unico col quale misurare il nostro possibile benessere.
Proviamo però a riflettere cosa significa “crisi” e quali meccanismi accenda e come questi governino ben oltre ciò che -forse- ci aspettiamo.
Generalmente parliamo di “crisi” quando vi è una rottura di dinamiche ed equilibri pre-esistenti e contemporaneamente una incapacità di ri-regolare e/o stabilizzare il sistema. Per certo la “crisi” ha una storia prodromica che spesso non è compresa se non nella sua esplosività.
    L'esordio della crisi può avere molte manifestazioni palesi: ad esempio si può trattare di un cambiamento di politica e di discorsi; o di operazioni di controllo lanciate da istituzioni esterne; o ancora dalla presa di potere da parte di un personaggio o di un gruppo (cit. Dizionario di Psicosociologia – Barus-Michel, Enriquez, Lévy – 2002).
Le reazioni alla crisi seguono allora dinamiche che possiamo considerare simili tra i vari contesti, da quello personale o famigliare, a quello delle grandi organizzazioni.
    Per certo il clima di tensione, il contesto socioeconomico, il mercato del lavoro, i cambiamenti tecnologici o il clima politico sono ogni volta avvertiti come un ulteriore appesantimento delle pressioni minaccianti. I membri dell'organizzazione si sentono esclusi dagli ambiti decisionali a cui avevano avuto l'impressione di partecipare: le rappresentazioni diventano negative e vi è perdita di fiducia, scoperta o giudizio di incompetenza, accuse di machiavellismo, di doppiezza di arbitrarietà. In un clima di indignazione o di scoraggiamento vi è un disinvestimento nei valori sino a quel momento creduti fondanti, le pulsioni non canalizzate sono iperattive e si disperdono in interazioni disordinate, discordanti, con rivalità e disgregazione sino al crollo (ibidem). Le esperienze di potere collegiale si dissolvono o sono tradite dall'ambizione di alcuni dei loro rappresentanti. La violenza ed un immaginario mortifero prendono il sopravvento. Si affaccia il fenomeno dei suicidi dovuti alla crisi vissuta come disperante: il senso di impotenza è forte e destabilizzante.
    E' evidente che intervenire nella crisi, specie se viene proposta e rinforzata continuamente dai media e da fattori esterni significa agire su meccanismi particolari e universali:
“Si può facilmente determinare una sovrastimolazione del soggetto attraverso meccanismi della suggestione. L'apparente attività può corrispondere intrapsichicamente ad una passività dell'Io nei confronti sia della realtà esterna che delle pulsioni.”, (Psicologia clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale. Psicoterapie, trattamenti somatici. di Margherita Lang, 2001).
Ed ancora: D. Rapaport (1953) ha proposto l'attività e la passività dell'autonomia relativa dell'Io e dell'Es e della realtà esterna. Lo stato di passività dell'io nella crisi, evidenziato o provocato da avvenimenti della realtà esterna (percepiti come, ndr) inaffrontabili, si manifesta come impotenza nei confronti del proprio ES e quindi come difficoltà di controllo e modulazione di affetti, pensieri ed azioni. Si assiste a fenomeni come passività, ubbidienza, suggestionabilità, fragilità, condiscendenza, atteggiamento regressivo, assenza di pensiero critico.
    In questa “crisi”, che passa dal contesto generale a quello personale ed individuale e viceversa, si possono verificare, traducendo il tutto in termini di dinamiche politiche e sociali, sottomissioni vissute come salvifiche a qualcosa, più grande e potente, che assume per noi la guida e la risoluzione, oppure, come accennato sopra, l'assunzione di condotte individuali autolesive, come il suicidio, estrema esemplificazione e realizzazione del senso di impotenza.
Sottomettersi? Si, ma a chi?
Chi meglio di un capo carismatico?
Al capo carismatico è affidato il compito di indicare il percorso per uscire dalla fase di sbandamento, nell'idea che il riordino della società avvenga al fine di agire/vivere in un ambiente più rassicurante, più stabile, più riconoscibile, per riacquisire una propria collocazione ed un ruolo. L’individuo, in questa individualizzazione spinta e promossa con enfasi a cui egli stesso ha creduto come via per il benessere e la felicità, persa la collocazione all'interno di una comunità e di un collettivo ove riconoscersi e identificarsi con efficacia, si sente (è portato a sentirsi) scarsamente valorizzato dalla società ed addebita a questa l’insufficiente considerazione di se stesso, da cui dipende anche la sconfitta continuamente patita nelle relazioni con i suoi pari, di cui, magari, crede di non possedere lo stesso cinismo o la stessa abilità comunicativa, oppure, rispetto ai quali, non gode degli stessi favoritismi.
    Ce ne siamo avveduti con l'ascesa alla presidenza del consiglio del prof. Monti. Una ascesa del tutto extra-parlamentare, con un ruolo del capo dello Stato ai limiti della Costituzione, che venne accolta come passaggio discutibile ma necessario. Non solo: nel Paese si era assistito ad una vero e proprio giubilo, con tanto di bandiere alle finestre, poiché l'ascesa di Monti significava metter via la fase berlusconiana. E se questo accantonamento avveniva per rispondere adeguatamente alle direttive europee (quelle stesse che in nome del potere finanziario non temono di schiacciare e ridurre in miseria popoli interi), e non per via politica, poco importava.