Di Giovanni Casciaro
Finora  si è conosciuto un tipo unico di licenziamento che, nelle aziende di certe dimensioni (di cui ci occupiamo), è legittimo soltanto se sussiste la giusta causa (e qui non serve preavviso) oppure il giustificato motivo. Il licenziamento disciplinare è un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo "soggettivi" rispetto al quale possono essere previsti adempimenti o limitazioni in contratto collettivo, ma non ha vera autonomia nell'ambito della generale categoria del licenziamento, e sempre, in caso di soccombenza datoriale, il licenziato ottiene anche la reintegrazione. Attualmente Il datore di lavoro licenzia, e il lavoratore è onerato a impugnare entro sessanta giorni, ma può iniziare la lite dopo, quando gli pare e piace. In giudizio, il datore deve poi dimostrare la giusta causa o il giustificato motivo, altrimenti perde la causa, nel qual caso deve reintegrare e pagare tutti gli emolumenti non corrisposti al licenziato, più interessi e rivalutazione.

Ma cosa ti inventa la Fornero?
Stabilisce una distinzione di fondo tra licenziamento "discriminatorio" ed "economico", e per quest'ultimo, se il datore di lavoro non prova il giustificato motivo, soccomberà sempre, ma non dovrà più reintegrare, e gli basterà pagare una somma. Sennonché, quando mai il datore ha licenziato apertamente per "discriminazione"?
Non ne ho mai incontrato uno così fesso, e allora se il datore di lavoro, dopo la prevista modifica dell'art. 18, licenzierà adducendo bensì una motivazione "economica", di cui magari fornirà elementi, ma sottacendo il motivo reale, toccherà al lavoratore licenziato evidenziare la discriminazione, sempre che voglia ottenere la reintegrazione.
Ciò potrà accadere sol dopo che la Fornero avrà individuato nell'ambito del generale istituto del licenziamento uno specifico licenziamento "economico" con regole tutte sue. Se infatti questa autonomia non si desse, allora il datore di lavoro soccombente che non sia riuscito a provare il motivo "economico" dedotto dovrebbe reintegrare, domani come ieri.
L'unico modo per sovvertire la disciplina dell'art. 18 è creare una figura di licenziamento economico "ex novo".
Assegnata al licenziamento "economico" una sua specificità, resta l'onere probatorio del datore di lavoro quanto alla ragione del licenziamento, ma passa sul lavoratore l'onere difficilissimo ("probatio diabolica") di provare il sottostante motivo discriminatorio, senza di che non potrà giammai essere reintegrato. Basterà dunque al datore di lavoro dedurre un motivo "economico" pur fasullo, per evitare comunque il ripristino coatto del rapporto di lavoro.
Il mutamento normativo che si vuole introdurre, se lascia formalmente in vita la disciplina dell'art. 18, riduce in effetti questa disciplina a una sorta di guscio vuoto, perchè la reintegrazione diventerà un caso-limite. Neppure credo che saranno le aziende a trarne effettivo beneficio. Ciò che per le aziende determina un danno spesso pesante e irragionevole non è la reintegrazione, ma lo stato di incertezza in cui può rimanere per un tempo indefinito la situazione del rapporto di lavoro dopo il licenziamento. A mio avviso l'onere del lavoratore di impugnare il licenziamento entro sessanta giorni dev'essere più rigoroso, nel senso che sarebbe da stabilire l'impugnativa del licenziamento entro sessanta giorni non già con un atto qualsiasi ma con ricorso al giudice del lavoro a pena di decadenza, e che nell'ambito della controversia così introdotta dovrebbe essere prevista la necessità di una valutazione preliminare urgente, con la reintegrazione sempre disposta sia pur precariamente, qualora il giudice non ravvisi chiari elementi di fondatezza della motivazione aziendale. E' iniquo peraltro che un lavoratore licenziato (come non di rado accade) possa magari attendere anni, forse lavorando in nero, prima di introdurre il giudizio, e poi ottenere la reintegrazione e un risarcimento corrispondente alle retribuzioni non percette.