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FRANCO ASTENGO – GIOVANNI BURZIO (per l’evento: ANPI SAVONA “Adotta un articolo della Costituzione”)

ARTICOLO 49 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
“I PARTITI POLITICI ITALIANI TRA COSTITUENTE E TANGENTOPOLI (1945-1992)”

L’articolo 49 della Costituzione Italiana recita testualmente.
“Tutti i cittadini hanno diritto ad associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Questo lavoro, nel dipanare un itinerario di carattere “storico” al riguardo della vita dei partiti in Italia, tende a evidenziarne la centralità e l’importanza, ripercorrendo i tratti fondamentali della vicenda italiana nel periodo dalla Liberazione all’implosione del sistema all’inizio degli anni’90 del secolo scorso e tentando anche di descrivere la collocazione politica, la struttura organizzativa, la posizione nella società dei soggetti organizzati più importanti presenti sullo scenario del sistema politico italiano di quel periodo che il prof. Sartori ha definito come di “multipartitismo polarizzato”.
La democrazia è quella forma di governo caratterizzata dall’attiva presenza e partecipazione del popolo alla vita politica del Paese attraverso l’attuazione del principio della “democrazia partecipativa”.
Poiché tale partecipazione popolare non può essere costante e continua (attraverso il principio della cosiddetta “democrazia diretta”) nei sistemi democratici vigenti si è costretti a ricorrere all’intermediazione di particolari organismi da esso liberamente eletti, che rappresentano i cittadini e che sono in grado di determinare con continuità le attività e le scelte politiche.
Tali organismi, detti “di base” sono i partiti politici, definibili, sempre riprendendo il prof. Sartori “ un partito è qualsiasi gruppo politico identificato da un’etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni, ed è capace di collocare, attraverso le elezioni i suoi candidati alle cariche pubbliche”.
Tale definizione individua direttamente lo scopo ultimo del partito: la conquista del potere, e soprattutto la capacità di inserire i suoi appartenenti nei posti chiave dell’ordinamento per accrescere la forza del gruppo.
I partiti politici sono diffusi nei paesi democratici e lo studio delle funzioni da essi svolte è diventato centrale per la scienza politica.
Evidente e immediato è il loro ruolo di mediatori tra lo Stato e la società civile.
Le funzioni da essi svolte possono essere così riassunte
- Strutturazione della domanda politica. I partiti trasmettono la domanda politica della società, semplificando la complessità degli interessi individuali. Un partito riunisce persone che condividono valori simili e rappresenta, a differenza di un gruppo di pressione, un interesse generale;
- Strutturazione del voto. I partiti fanno sentire la voce degli elettori, e danno stabilità e unidirezionalità ai comportamenti dei votanti;
- Socializzazione politica. I partiti fanno dell’uomo un animale politico: lo integrano in un gruppo e, focalizzando l’attenzione su tematiche rilevanti per la società, permettono ai cittadini di esprimere la loro opinione in merito;
- Reclutamento e selezione dei governanti. Nonostante si ricorra sempre più spesso a elezioni primarie per scegliere i candidati a delle cariche, resta innegabile il ruolo dei partiti in tale processo. Nella maggior parte delle democrazie moderne i governi sono formati da statisti che hanno iniziato la loro carriera come membri di un partito;
- Controllo dei governati sui governanti. In una democrazia rappresentativa i partiti sono strumenti di controllo sul governo e canali di collegamento fra quest’ultimo e i cittadini;
- Formazione delle politiche pubbliche. Un partito quando si presenta alle elezioni porta con sé un programma, sulla base del quale raccoglie voti e, in caso di vittoria, l’obiettivo primo è quello di darvi attuazione.
Esaurita, a questo punto, la premessa teorica entriamo nel vivo della nostra ricostruzione storica.

LO SVILUPPO DEL SISTEMA DEI PARTITI
Il quadro politico italiano è stato contraddistinto, per un lungo periodo, da un sistema pluripartitico di tipo classico, imperniato su di un sistema elettorale di tipo proporzionale corretto da uno sbarramento derivante dal conseguimento di un quoziente pieno in almeno un collegio (nei collegi elettorali più grandi, Milano, Torino, Roma, Napoli, le percentuali necessarie per ottenere questo risultato oscillavano tra l’1,5% e il 2%) e i 300. 000 voti su tutto il territorio nazionale.

A partire dal 1946 nel Parlamento Italiano (che fino al 1948 operò come Assemblea Costituente) fino alle elezioni del 1994, quando venne utilizzato per la prima volta un sistema elettorale misto maggioritario/proporzionale, è sempre stato presente un numero di partiti oscillante da nove a tredici (senza tener conto dei partiti regionali).
Questa molteplicità di formazioni politiche si svilupparono, per la gran parte, ricollegandosi alla tradizione prefascista.
In effetti la riorganizzazione delle forze politiche italiane, messe fuori gioco dal fascismo, avvenne ancor prima del 25 Aprile 1945.
I comunisti e i socialisti ricostruirono la loro organizzazione nel 1942-43 sulla base delle strutture utilizzate nella lotta clandestina contro il fascismo.
Altrettanto fecero i liberali.
La DC, che godeva del massiccio appoggio della Chiesa, assorbì l’eredità del Partito Popolare fondato da Don Sturzo nel 1919.
Comparvero però anche altre formazioni politiche.
Gruppi antifascisti borghesi di ispirazione repubblicana diedero vita al Partito d’Azione, mentre nel Sud comparve il Partito della Democrazia del Lavoro, costituito da notabili conservatori.
Nel Settembre del 1943, i sei partiti appena ricordati diedero vita al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che aveva come lo scopo di liberare il paese dal fascismo.
I partiti sopravvissuti alla lotta di Resistenza, ripresero dalle formazioni di cui avevano ereditato le organizzazioni non solo le idee, ma anche i tradizionali contrasti di fondo (tanto verso gli altri partiti, quanto al loro interno).
Mentre i partiti nuovi si sciolsero prima ancora che i loro programmi avessero potuto acquisire una qualche importanza.
Fra questi ultimi, una parte di sicuro rilievo venne svolta durante la Resistenza e nell’elaborazione della Carta Costituzionale dai membri del Partito d’Azione.
Ma a partire dal 1946, gli azionisti non costituirono più un partito autonomo, dal momento che questo era stato sciolto a causa dei deludenti risultati elettorali e dei contrasti interni, e i suoi membri aderirono in gran parte al Partito Socialista, e in altra parte (in maggioranza) al Partito Repubblicano Italiano.
Quest’ultimo, che era stato rifondato nel 1943, non era però entrato nel CLN a causa  della discriminante istituzionale.
Le osservazioni precedenti non devono però far supporre che tra il sistema partitico del dopoguerra e quello prefascista, vi fosse una sorta di identità.
Basti pensare al fatto che il ruolo dei liberali, come Partito dominante, venne assunto dalla DC, mentre la sinistra si divise ulteriormente, mentre la sinistra si divise ulteriormente, poiché a lato di comunisti e socialisti, si posero nel 1947 i socialdemocratici.
D’altra parte, come vedremo meglio in seguito, solo entro certi limiti si può parlare di una nuova fondazione di  partiti politici.
Gli anni tra il 1943 e il 1948 furono caratterizzati dall’avvio di questa polarizzazione fra i due grandi blocchi di partiti antifascisti, che resistette almeno fino alla formazione del primo governo di centrosinistra all’inizio degli anni’60.
Da un lato si collocò la maggioranza della DC e il PLI, che intendevano realizzare la ricostruzione economica del Paese fondamentalmente mediante l’esaltazione dell’iniziativa privata; mentre dall’altro lato il PCI, i socialisti (che allora si denominavano Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e più avanti assunsero il nome di Partito Socialista Italiano) e la sinistra DC chiedevano che si organizzasse un sistema di politica economica fondato sui piani e sui controlli dello Stato.
Il Referendum istituzionale del 2 Giugno 1946 segnò la vittoria della Repubblica sulla Monarchia, con una maggioranza pari al 54,3% dei votanti.
Ma già nelle elezioni per l’Assemblea Costituente, tenutesi nello stesso giorno, apparve chiaro che i voti alle forze politiche si erano concentrati attorno ai due poli, da una parte PCI e PSI ottennero il 39,7%, e dall’altro la DC, che riportò il 35,1% dei voti.
Nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente la sinistra riuscì a far inserire nella Costituzione la possibilità di pianificazioni statali e di nazionalizzazioni, nonché un impegno per la riforma agraria, ma al prezzo di concedere alla DC l’inclusione nella carta costituzionale del riferimento ai patti Lateranensi, stipulati da Mussolini nel 1929 con il Vaticano, per chiudere la “questione romana”.
Il 1947 fu l’anno della svolta.
Nel gennaio una frazione fortemente anticomunista si scisse dal partito socialista (PSIUP) per fondare un nuovo partito, il Partito socialdemocratico (in allora PSLI, poi PSDI).
Poco dopo, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, dopo un viaggio negli USA, licenziò i ministri comunisti e socialisti.
E nel Giugno l’Italia viene ufficialmente inclusa tra le nazioni beneficiarie del Piano Marshall.
Nello stesso tempo, con la nomina dell’economista liberale Luigi Einaudi (successivamente eletto Presidente della Repubblica) al principale ministero economico, si inaugurò una politica di definitivo rientro nell’economia di mercato.
Nelle prime elezioni per il Parlamento Nazionale, che si tennero il 18 Aprile del 1948, la DC ottenne la maggioranza assoluta dei seggi e il 48,5%.
La lista del Fronte Democratico Popolare,, che raccoglieva socialisti e comunisti, ottenne soltanto il 31% dei voti, con una perdita di quasi un milione di suffragi rispetto al 1946.
Poco tempo dopo le elezioni politiche, nel mese di giugno, dalla CGIL uscirono le componenti di minoranza cattolica, socialdemocratica e repubblicana.
La rottura dell’unità delle forze antifasciste era così compiuta.
Durante tutto il periodo della “guerra fredda” (1948-1956) i partiti di sinistra si trovarono di fronte ad un blocco dominante guidato dalla DC.
Nel corso del tempo, tuttavia, la coalizione di centro subì sempre più la pressione, sia della destra (all’interno della quale si era costituito il MSI, partito di estrema destra collegato idealmente all’ultima fase del fascismo repubblicano di Salò) che della sinistra.
Del resto, anche all’interno della coalizione governativa non mancarono i  conflitti, soprattutto alimentati dal PSDI, che si opponeva all’eccessiva influenza di stampo liberal-conservatore esercitata dal PLI.
Con l’allentarsi del cemento dell’anticomunismo, la coesione della coalizione di governo (DC, PRI, PLI, PSDI) si fece sempre più precaria.
Il tentativo della DC di consolidare la posizione con una riforma della legge elettorale, che prevedeva l’attribuzione del 2/3 dei seggi al Partito o al blocco di apparentati, che avessero ottenuto più del 50% dei voti non ebbe successo, per la perdita da parte della stessa DC dell’8,4% dei voti nelle elezioni del 1953.
Con il conseguente rifiuto dei partiti minori di continuare a sostenerla la DC si vide costretta a costituire governi monocolori, i quali vissero vita grama, travagliati da continui rimpasti.
La dinamica del sistema partitico italiano di questo periodo, venne dunque caratterizzata da un duplice movimento: da un lato la ricerca democristiana di nuovi alleati, resa necessaria dalla crisi della coalizione centrista e, corrispondentemente, dall’altro, dalla rottura del blocco di sinistra, in seguito agli avvenimenti che contrassegnarono, sul piano internazionale, “l’indimenticabile ‘56”, con la denuncia dello stalinismo al XX congresso del PCUS e la repressione sovietica della sollevazione popolare ungherese.
Gli spostamenti della DC e del PSI costituirono la graduale preparazione della “apertura a sinistra”, avvenuta nel quinquennio 1957-1962.
La svolta a sinistra della DC ebbe le sue più profonde motivazioni nella necessità di una stabilizzazione politica e di un ammodernamento nelle strutture economiche del Paese.
Nonostante queste rilevanti motivazioni politiche, l’apertura a sinistra incontrò seri ostacoli nella stessa DC, tanto che nel 1960 venne formato un governo presieduto da Tambroni, con l’appoggio di monarchici e missini: il governo fu costretto a dimettersi, dopo pochi mesi, a seguito di una crisi contraddistinta da forti moti di piazza (Genova, Reggio Emilia, Roma).
Poco dopo però sia la nuova linea inaugurata dal Vaticano (la “neutralità politica” affermata dal papa Giovanni XXIII), sia la distensione internazionale modificarono il clima politico interno, consentendo così di avviare l’esperienza della collaborazione governativa tra DC e PSI (dicembre 1963): all’inizio venne mostrata una forte disponibilità ad attuare riforme importanti, quali la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la programmazione economica.
Fra la fine del 1963 e l’inizio del 1964 il boom economico iniziò la sua fase discendente, dando il via a un periodo di recessione.
Nel gennaio del 1964 la corrente della sinistra socialista, nella quale militavano il 60% dei sindacalisti del Partito, si staccò dal PSI dando vita a un nuovo Partito che ripresa l’insegna del PSIUP.
Sul versante della DC crebbe la forza della destra che, approfittando della sfavorevole congiuntura economica, tentò di impedire le riforme fondamentali, rinviandone o annacquandone alcune  fondamentali verso il Mezzogiorno e la trasformazione del diritto di famiglia.
Anche il tentativo di riunificare PSI e PSDI nel PSU, al fine di dare vita a un Partito forte per poter imporre le riforme, si concluse con un fallimento dal momento che il nuovo Partito nelle elezioni del maggio 1968 ottenne solo il 14,5% dei voti (il PSI e il PSDI, separatamente, avevano ottenuto il 19% nel 1963), mentre PCI e PSIUP toccarono complessivamente il 31,4%.
L’ondata di scioperi dell’autunno caldo del 1969, e le lotte studentesche del 1968-69, misero in moto nuove dinamiche politiche.
Sullo sfondo di una esperienza sindacale in cui si registrarono sostanziali spinte verso l’unità d’azione, il PCI apparve propenso a stabilire un dialogo con le correnti di sinistra della DC, mentre alcuni suoi leader parlarono di un “unico grande partito della classe operaia”.
A ulteriore conferma della disponibilità del PCI verso i socialisti e la sinistra DC, si ebbe la dimostrazione di una difficoltà a mantenere un dissenso interno di “sinistra”, attraverso l’espulsione del gruppo del “Manifesto”.
Anche i socialisti ricercarono, a partire dal 1969, un allargamento a sinistra dell’area di governo, mentre la DC (sensibile alle richieste di un ritorno all’ordine, espresse dai ceti sociali intermedi) apparve sempre più orientata in senso conservatore.
L’elezione del democristiano Giovanni Leone a Presidente della Repubblica, avvenuta nel 1971, rappresentò la prova conclusiva del mutamento di rotta della DC e del definitivo fallimento della formula di centro-sinistra.
Al naufragio del centro-sinistra fece seguito un periodo di incertezza, nel corso del quale la DC si destreggiò con varie formule di coalizione.
Dopo uno sciopero generale proclamato dai Sindacati per protestare contro la politica conservatrice del governo, nel luglio 1973, il PSI rientrò nella maggioranza (quarto governo Rumor).
Nel settembre del 1973 il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, formulò la strategia del “compromesso storico”.
Nel 1974 il referendum sul divorzio dimostrò che la DC non poteva più a lungo contare sulla capacità di integrazione politica del cattolicesimo.
Le elezioni politiche svoltesi nel giugno 1976 confermarono la tendenza dell’elettorato italiano verso sinistra, modificando a svantaggio della DC la stabilità elettorale, che aveva caratterizzato l’Italia del 1948.
In quell’occasione il PCI riuscì a compiere una ulteriore avanzata fino al 34,4%, mentre il PSI mantenne le posizioni e i partiti minori, a eccezione del PRI, continuarono ad arretrare.
Le elezioni del 1976 segnarono così una svolta nelle dinamiche del sistema dei partiti italiani, perché subito dopo il loro svolgimento iniziò una fase di crescente accostamento tra DC e PCI.
Il PCI e il PSI aveva conquistato assieme il 44% dei voti, mentre la DC, il PRI e il PSDI vantavano nel complesso il 46,5%.
Un governo contro i comunisti non era più possibile, giacché i socialisti e i repubblicani chiesero la partecipazione al governo del PCI.
Si formò così un governo democristiano, presieduto da Andreotti, che dipendeva dalla “non sfiducia” dei comunisti.
Questi ultimi in cambio della loro astensione avevano chiesto e ottenuto di partecipare alle intese programmatiche, tra i partiti dell’arco costituzionale.
Il PCI dimostrò, da parte sua, di aver accettato la regola fondamentale del non chiedere troppo e della garanzia di far parte dell’”Arco Costituzionale” – sufficiente – quando nel febbraio del 1978, consentì al governo Andreotti di superare la crisi allora in atto, rinunciando alla richiesta di piena partecipazione al governo.
Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro (marzo-maggio 1978), il presidente della DC che aveva portato avanti la linea della “solidarietà nazionale”, contrassegnarono in pratica la conclusione di quell’esperienza che pure conseguì un risultato di grande importanza eleggendo il socialista Sandro Pertini alla Presidenza della Repubblica.
La rottura, da parte del PCI, del quadro politico di maggioranza , determinatosi concretamente con la votazione contraria all’adesione dell’Italia al serpente monetario europeo (dicembre 1978), portò a una fase di instabilità e di crisi del ruolo “centrale” della DC che si trovò costretta a cedere la poltrona di presidente del consiglio, prima al repubblicano Spadolini (1981) e poi al socialista Craxi (1983).
Era così entrato nella fase conclusiva della sua esistenza il particolare sistema multipartitico italiano, nato dalla sconfitta del fascismo e dalla proclamazione della Repubblica

MUTAMENTI SOCIALI E CONFORMAZIONE DEL SISTEMA DEI PARTITI (anni’40-’80)
Negli anni presi in esame il sistema partitico italiano appariva certamente frantumato, guardando al numero dei partiti in lizza nelle competizioni elettorali e presenti nei due rami del Parlamento.
Ma le dinamiche elettorali, analizzate in relazione ai tre blocchi principali (destra, sinistra, centro) rivelano un relativo avvicinamento ai risultati conseguiti nelle elezioni per la Costituente nel 1946, dai quali si erano scostati nel 1948, per l’incremento ottenuto dalla DC.
A partire dal 1953 si può dunque parlare di una “bipolarizzazione imperfetta”, termine coniato da uno dei padri della politologia italiana come Giorgio Galli, che ha caratterizzato il sistema partitico, tanto a livello elettorale quanto parlamentare, ed estesa in quasi tutti gli ambiti della società civile.
La situazione italiana si configurò dunque tale da richiedere una qualche collaborazione tra i due maggiori partiti, al di là delle frasi segnate dai governi di ricostruzione nazionale (1944-1947) e di solidarietà nazionale (1976-1978).
La situazione italiana risultò indubbiamente legata anche a un certo stato dell’economia, che rendeva necessario considerare i nessi possibili tra l’uno e l’altro dei due partiti.
A quindici anni dalla fine del “miracolo economico” dei primi anni’60, l’economia italiana si trovò in una situazione di crisi profonda.
Nel 1977, secondo le stime ufficiali, la disoccupazione aveva raggiunto il 7%, colpendo soprattutto le donne (delle quali soltanto il 20% aveva un lavoro) e i giovani.
Inoltre, nel dopoguerra pur essendo costantemente diminuito il numero degli occupati in agricoltura (dal 38% del 1951 al 18% del 1971) l’Italia rimase largamente al di sopra della media della CEE.
Va inoltre ricordato che l’arretratezza strutturale del Sud ha sempre rappresentato uno dei maggiori problemi del Paese.
Nel Mezzogiorno vivevano, alla fine degli anni’70, il 33% degli italiani, ma anche il 42% dei disoccupati, mentre il reddito nazionale salì nel Sud del 2,2% contro il 6% del resto d’Italia.
A ciò si deve aggiungere che l’indebitamento dell’Italia con l’estero crebbe tra il 1977 e il 1981 circa del 50%, mentre nello stesso periodo il debito consolidato dello Stato, dei Comuni, degli Enti pubblici assicurativi e assistenziali, nonché delle Aziende Statali, era pari all’85% del prodotto nazionale lordo, per poi salire ancora nella fase culminante dei governi di pentapartito.
La situazione economica comportò trasformazioni sociali, non prive di conseguenze per i partiti.
Nel periodo considerato, infatti, non si ebbe soltanto una diversa ripartizione degli abitanti tra il Sud e il Nord, ma anche una redistribuzione della popolazione attiva tra lavoro autonomo e lavoro dipendente, a favore di quest’ultimo.
Nel solo decennio 1951-1961 circa otto milioni di italiani abbandonarono, ora temporaneamente ora per sempre, la loro residenza, emigrando nella maggior parte dei casi, dal Sud tradizionale e conservatore verso il Nord industriale, dal villaggio o dalla piccola città verso l’agglomerato urbano, dalla piccola azienda contadina alla fabbrica: in una parola lasciarono un mondo ancora arcaico e contadino, per un mondo moderno e industrializzato.
La crisi economica fu dunque causa, e allo stesso tempo effetto della crisi politica.
L’egemonia della DC non si tradusse in capacità di adattare tempestivamente la struttura interna dello Stato Sociale e delle sue funzioni  di sviluppo economico.
Anche durante il periodo  del centro-sinistra, e la successiva fase della solidarietà nazionale, non si produsse il necessario recupero del preesistente deficit di riforme.
Si aprirono così le porte al consociativismo dei partiti e al decisionismo irresponsabile, che alimentarono la grande “questione morale” su cui si imperniò, all’inizio degli anni’90, una traumatica modificazione del sistema.

LA DEMOCRAZIA CRISTIANA (DC)
Per oltre quarantacinque anni la Democrazia Cristiana è stata il Partito dominante in Italia.
Tra il 1945 e il 1992 la DC ha avuto il consenso della maggioranza relativa degli italiani, riuscendo a conquistare (almeno sino alle elezioni del 1983) in media circa il 40% dei voti e fornendo, di conseguenza, fino al giugno 1981, tutti i Presidenti del Consiglio.
Per tutto questo periodo la DC concluse alleanze di governo con tutti i partiti, salvo che con i comunisti e l’estrema destra, dai quali tuttavia accettò il sostegno parlamentare, allorquando questo risultò necessario per conservare il potere.
Avvalendosi dell’operato di un’ampia varietà di iniziative collaterali (dalla CISL all’Azione Cattolica) la DC riuscì a penetrare in larghi settori della popolazione.
Nella politica interna il suo maggior alleato venne rappresentato dalla Chiesa Cattolica, mentre nella politica estera dagli USA: entrambi hanno appoggiato la DC in pressoché tutte le campagne elettorali del dopoguerra.
Il partito democristiano fu costituito nel 1942, per effetto della fusione di gruppi cattolici antifascisti e i resti del PPI, formazione cattolica fondata nel 1919 e sciolta dal regime fascista nel 1926.
Subito dopo la sua costituzione la DC prese parte attiva all’alleanza antifascista formata dai vari partiti italiani, diventandone con il PCI una forza determinante.
Nel luglio del 1944, con il Manifesto di Milano, la DC elaborò un programma da Partito cattolico interclassista, rivolgendosi a tutti gli italiani non marxisti e non fascisti.
Il gruppo dirigente del nuovo Partito proveniva in prevalenza dal PPI e la sua base, che già nel 1945 contava più di mezzo milione d’iscritti, sin dall’inizio ha rispecchiato pressoché tutti gli strati della popolazione.
Negli anni dell’immediato dopoguerra, la DC ebbe qualche vantaggio rispetto agli altri partiti, non solo perché aveva recuperato il personale e l’elettorato del vecchio Partito Popolare, ma anche perché offrì una nuova patria politica ai seguaci del Partito Liberale, il quale dopo essere stato per lungo tempo il Partito della grande borghesia, si era però screditato a causa della collaborazione prestata da molti suoi esponenti allo Stato fascista.
Il vantaggio della DC divenne più tangibile grazie all’appoggio della Chiesa che, con un’Azione Cattolica forte di 800.000 iscritti (1946) servì a costruire una solida base organizzativa, nel 1945 furono fondate 12.000 sezioni democristiane, due terzi delle quali per iniziativa del clero locale o direttamente dalla stessa Azione Cattolica.
A metà degli anni’50 il vecchio gruppo dirigente, che proveniva in gran parte dal Partito Popolare, fu sostituito dalla nuova generazione dei dirigenti formatisi soprattutto nell’opposizione al fascismo.
Per la prima volta, allora, emersero chiaramente quelle contraddizioni che poi caratterizzarono a lungo la vita della DC.
I lavoratori cattolici trovarono una loro specifica espressione in due correnti di sinistra, nate nel 1952-53, mentre gli imprenditori e i notabili del Sud facevano capo soprattutto alla destra del Partito.
La distensione tra Est e Ovest, e il ritiro del Vaticano dalla politica interna italiana (avvenuto sotto il pontificato di Giovanni XXIII, nelle cui encicliche l’anticomunismo passò in secondo piano, a favore delle dottrine sociali della Chiesa) concorsero poi a determinare il clima, grazie al quale nel 1963 la DC poté formare con il PSI una coalizione di centro sinistra, il cui fine principale era quello di coniugare una modernizzazione del capitalismo (da realizzare, fra l’altro, attraverso una programmazione dell’economia, con il riformismo sociale).
All’inizio degli anni’70, dopo aver bruciato ulteriori possibilità di coalizione e di fronte alla svolta a destra dei ceti medi non-dipendenti (commercianti, piccoli proprietari, ecc.) così importanti per la DC,  verso la quale spingevano tanto la crisi dell’economia e la crescente insicurezza interna, quanto la crescente pressione dei sindacati e l’intensificazione dell’attività terroristica dei gruppi estremistici, il Partito si distaccò dalla linea politica del centro sinistra per ritornare nel 1972 a governi formati da coalizioni di centro o monocolori.
Dopo la fase della “solidarietà nazionale” (1976-1978) la DC ritornò all’alleanza con il PSI attraverso la formula del “pentapartito” (comprendente anche PSDI, PRI,PLI) nel 1981, ma nel quadro politico si manifestavano già i segnali di una crisi di fondo, dalla quale la DC risultò fortemente colpita, per almeno tre ragioni principali:
a) La spoliticizzazione, ovverosia la liberalizzazione del cattolicesimo, indebolì il più importante fondamento ideologico della DC. Anche l’anticomunismo, che costituì da sempre il cemento più potente dell’eterogeneo elettorato democristiano, perse di forza e di ragione con il crollo dei regimi dell’Est (1989);
b) Il prolungarsi della crisi economica, che mise in pericolo la legittimazione della DC come Partito permanentemente detentore della massima parte del potere politico;
c) L’accentuata divisione in correnti rese impossibile una politica unita e coerente della DC. All’interno di quel partito operò così un equivalente della cosiddetta partitocrazia, che può oggi essere definita a posteriori come correntocrazia, vale a dire una situazione in cui la politica del Partito dipendeva strettamente dai rapporti di forza di volta in volta, esistenti tra le correnti interne.

STRUTTURA SOCIALE
Anche se la composizione dell’elettorato democristiano offre ancor oggi l’immagine di un Partito che comprendeva tutte le classi e i ceti sociali,  è nondimeno evidente come in esso prevalessero ancora in grande misura i gruppi di orientamento cattolico e per lo più conservatori, presenti soprattutto fra i ceti professionali non-dipendenti e le casalinghe.
Ciò si spiega anche con il fatto che, originariamente, quasi la metà dei suoi elettori provenisse da addetti al settore agricolo, e come strada facendo risultassero in aumento i “non occupati” (casalinghe, pensionati, studenti).
Fra coloro che svolgevano un lavoro dipendente, invece diminuiva la presenza degli operai a vantaggio dei ceti medi.
Dal punto di vista della distribuzione geografica, i bastioni elettorali della DC vennero tradizionalmente costituiti dalle province bianche del Nord Est, fortemente influenzate dall’Azione Cattolica (nel 1976, anno preso d’esempio, poiché si verificò il minimo scarto tra DC e PCI in occasione delle elezioni politiche, nel collegio Bergamo-Brescia la DC riportò il 53,5%, mentre in quello Verona-Padova il 55,5%).
In queste zone il PCI rimase sempre al di sotto della soglia del 30% dei suffragi.
Al contrario la DC era debole nella “fascia rossa” dell’Italia centro-settentrionale, dove sempre nel 1976 riportò il 31,3%.
Complessivamente si può comunque affermare come, a dispetto dei forti spostamenti di popolazione, al distribuzione regionale dei voti della DC, rimase stabile dal 1946 al 1992, allorquando si fece sentire il fenomeno dell’affermazione leghista.
ORGANIZZAZIONE
La DC sviluppò su larga scala la propria organizzazione soltanto dopo la prima segreteria Fanfani.
Fra il 1953 e il 1959 il numero degli iscritti salì da 1.100.000 a 1.600.000 giungendo nel 1975 a un 1.730.000.
La densità dell’organizzazione della DC risultò notevolmente più elevata al Sud che al Nord, dove il Partito continuò ad appoggiarsi alle organizzazioni cattoliche.
Per quanto, a partire dal 1970, fosse stata messa in piedi una influente organizzazione regionale (dal 1973 i delegati al Congresso Nazionale vennero eletti nelle assise regionali) la DC non venne mai gravata da conflitti verticali tra il centro e la periferia.
Al contrario, i contrasti più stridenti e i dibattiti interni più importanti si svolsero orizzontalmente fra le diverse correnti, le quali erano organizzate a tutti i livelli del Partito, dalle sezioni al Consiglio Nazionale.
Fino al 1964 gli organi dirigenti vennero eletti in base ad un sistema maggioritario: più precisamente, mentre fino al 1956 la lista delle correnti vittoriose si aggiudicava i 4/5 dei seggi al Consiglio Nazionale, dal 1956 al 1964 essa guadagnava i 2/3.
Successivamente venne introdotto un sistema proporzionale, con un quorum minimo del 15% nelle elezioni per il Consiglio Nazionale, e del 10% in quelle delle istanze regionali e provinciali.
A partire dal 1976 il Segretario Generale non venne più eletto dal Consiglio Nazionale, come in precedenza, ma dai delegati al Congresso a scrutinio segreto.

TENDENZE, GRUPPI, CONFLITTI
La DC viene comunemente ricordata come un deplorevole esempio di Partito litigioso e diviso.
In realtà si dimentica, con troppa facilità, che le correnti per la DC non comportavano soltanto conseguenze negative, ma furono al contrario elementi portanti della sua egemonia, consentendo a tutti i gruppi vicini alla DC un’articolazione dei loro interessi all’interno del Partito e quindi una loro continua presenza.
La struttura interna alla DC venne, fin dall’inizio, caratterizzata dall’esistenza di tre grossi blocchi.
Fra la sinistra sindacale e cattolico-progressista del Nord e la destra agrario- conservatrice del Sud si collocava il centro mediatore, il quale era interessato, in primo luogo, alla conservazione del proprio potere e, poi, all’unità del Partito e, a questo scopo concluse notevoli alleanze ora con la sinistra, ora con la destra.
Già nel 1946 il Partito si divise sulla questione monarchica, e anche nel periodo degasperiano si ebbe la formazione di schieramenti che si richiamavano apertamente alla tradizione del PPI, ma i gruppi organizzati erano pochi e deboli.
Rifondandosi, nel corso del secondo conflitto mondiale, la DC appariva composta di un nucleo di ex-popolari sopravvissuti al fascismo, e da una miriade di quadri giovanili forniti dalle organizzazioni cattoliche.
Il personale politico di governo fu ovviamente preso dagli ex popolari e tra questi primeggiò subito De Gasperi, per statura, abilità politica, coraggio, visione generale.
Ai giovani il gruppo storico della DC appariva compatto e uniforme, da Gonella (il “teorico” più ferrato), a Scelba (che passava per allievo, erede, figlio spirituale di Don Sturzo) a De Gasperi (sempre isolato ma in posizione dominante) a Gronchi (che appariva come il più spostato “ a sinistra”).
I principi della dottrina sociale della Chiesa (dignità della persona umana, proprietà privata come diritto naturale, interclassismo o solidarismo sociale, famiglia come società naturale indissolubile e una, Stato come istituzione storica garante del bene comune, pluralismo politico) veniva applicata in funzione dell’unità politica dei cattolici e dell’affermazione della “centralità” democristiana.
Il primo gruppo che avvertì l’esigenza di dare alla DC un corpo di riflessioni politiche organiche meno astratte della dottrina sociale della Chiesa e meno occasionali dell’empirismo democristiano, fu quello dei “professorini” Dossetti, La Pira, Fanfani, Lazzati e della loro rivista “Cronache Sociali”: sulle cui colonne portarono avanti il discorso delle riforme e dell’efficienza delle forme di programmazione dell’economia, già presenti in Inghilterra e in Francia.
A partire dal 1959, all’interno di questa corrente maggioritaria, iniziò un processo di scissioni da cui nacque una vera e propria costellazione di correnti, che spaziava dal centrosinistra al centrodestra, con i suoi vari leader, quali Moro, Taviani, Forlani, Fanfani, Rumor, Piccoli, Colombo e Andreotti (morotei, pontieri, Nuove Cronache, Iniziativa Popolare, Impegno democratico). Questo gruppo di correnti comprendeva all’incirca il 70% dei delegati ai congressi, ma risultava tutt’altro che unito.
Dall’inizio degli anni’50, alla sinistra del Partito si formarono due principali raggruppamenti: la “Base” cattolica di sinistra (De Mita, Marcora, Granelli, Bodrato) e il gruppo legato ai sindacati di “Forze Nuove” (Donat-Cattin) ciascuno con circa il 10%.
La destra democristiana vide invece scemare la sua influenza all’inizio degli anni’60, quando ritardò ma non riuscì a impedire l’apertura a sinistra.
Le correnti provenienti da “Iniziativa democratica” rimasero al centro o, come i morotei, si spostarono su di una linea moderata di sinistra.
Dopo il passaggio al centro della corrente “Primavera” (andreottiani) avvenuto a metà degli anni’60, la destra vera e propria della DC si ridusse al 3%.
Quando Zaccagnini venne eletto Segretario generale dal congresso del 1976, la divisione della DC sulla questione della collaborazione con il PCI emerse chiaramente e ampiamente, in modo da estendersi a tutte le correnti.
Per Zaccagnini che rappresentava una linea di competizione costruttiva con i comunisti, votò allora il 51,6% dei delegati (i gruppi di sinistra, e il centro-sinistra che faceva capo a Moro, Rumor, Taviani) mentre contro di lui e per una linea di duro confronto si pronunciarono i gruppi del centro-destra e della destra (capeggiati da Fanfani, Forlani, Piccoli)

POSIZIONE NEL SISTEMA DEI PARTITI
Dal punto di vista ideologico, la DC ha rappresentato fin dalla  sua fondazione il centro del sistema politico italiano, mentre dal punto di vista della pratica delle coalizioni ha condiviso questa posizione, a partire dal 1947 con una “piccola sinistra” (PSDI e PRI) e una “piccola destra” (PLI).
Non appena la DC ebbe conquistata la maggioranza, iniziò subito una graduale espansione dei suoi legami politici in questi due settori dello schieramento partitico.
Questo accadde anche quando realizzò la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, nel periodo della leadership di De Gasperi (fra il 1948 e il 1953), poiché il ricorso agli alleati serviva a fronteggiare con successo l’opposizione all’interno del Partito.
L’ampiezza della fascia di alleanze di governo nella quale la DC si mosse nell’arco dei quarantacinque anni di detenzione del potere (dal PSI al PLI nelle coalizioni, dal PCI al MSI nel sostegno parlamentare) testimonia la capacità i difendere durevolmente il proprio predominio, contro l’opposizione di destra o di sinistra, fosse questa interna o esterna al Partito.
La DC, insomma, era aperta su entrambi i fronti. L’ala conservatrice serviva da ponte sulla destra (verso PLI e MSI) l’ala sinistra la teneva in contatto (ad esempio attraverso i sindacati) con PCI e PSI.
Un esempio classico di Partito “a coalizione dominante”.

IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO (PCI)
Il 21 Gennaio 1921 i delegati separatisi dal Congresso socialista di Livorno diedero luogo alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della III internazionale.
Quello di Livorno fu così il primo congresso del Partito, con obiettivi preminentemente organizzativi, in cui si decise di stabilire la sede a Milano e si elesse un Comitato Centrale di 15 membri.
Il II congresso si svolse a Roma nel marzo del 1922 e vide ancora la prevalenza di Bordiga.
L’orientamento che guidò la preparazione delle tesi del II congresso venne fortemente segnato dal settarismo e dallo schematismo bordighiano, di fronte al quale si offuscarono anche le posizioni dell’“Ordine Nuovo”, più sensibili alla realtà del movimento e al rapporto vivente del Partito, con la classe operaia.
Il III Congresso si tenne clandestinamente a Lione dal 20 al 26 Gennaio 1926, tra grandi difficoltà dovute agli interventi delle polizie italiana e francese.
Il valore delle “Tesi di Lione” risiede nel tipo di analisi storica che vi viene compiuta, per opera precipua di Antonio Gramsci, intorno ai tratti specifici dello sviluppo del capitalismo in Italia.
Vennero posti in rilievo i ritardi e i limiti della rivoluzione democratico-borghese, che aveva portato all’unità nazionale, fondando il nuovo potere sull’alleanza della borghesia capitalistica del Nord con i latifondisti del Sud e lasciando così aperta la questione meridionale e agraria.
Questa debolezza, secondo le tesi di Lione, aprì la strada alla reazione fascista, di cui si analizzano anche le caratteristiche di “movimento reazionario di massa”, con una base nella piccola borghesia urbana e in una nuova borghesia agraria sorta da una trasformazione della proprietà rurale avvenuta in alcune regioni.
Il Congresso di Lione elesse un Comitato Centrale composto in maggioranza dai dirigenti che seguirono l’indirizzo indicato nelle Tesi.
Gramsci fu eletto segretario generale.
Nel frattempo il fascismo, dopo la crisi seguita al delitto Matteotti (1925), si era sensibilmente rafforzato e diede inizio a una repressione condotta su larga scala, di cui furono vittime prevalentemente i comunisti.
Su circa 5.000 condanne pronunciate dal Tribunale Speciale, oltre 4.000 riguardarono i comunisti, cui vennero inflitti circa 23.000 anni di carcere.
Lo stesso Gramsci, alla fine del 1926, venne arrestato.
Fino al 1934 (anno della firma del patto di unità d’azione con il PSI) furono anni difficili per i comunisti, trascorsi nell’isolamento all’interno, contando solo su 3.000 iscritti (1933), con rapporti complessi all’interno dell’Internazionale Comunista, che nel VII congresso (1934) espresse pesanti critiche all’operato dei dirigenti italiani.
Furono i dibattiti in seno alla Terza Internazionale e l’evoluzione della situazione europea dopo la presa del potere in Germania da parte del nazismo (1933) a riproporre ai partiti comunisti dell’Europa Occidentale la tematica dell’unità della sinistra.
In Italia si assistette, in quegli anni, al prosieguo della repressione (Gramsci morì il 27 Aprile 1937).
I comunisti parteciparono alla guerra di Spagna, fornendo oltre 3.000 combattenti alle Brigate Internazionali, accorse per difendere la Repubblica.
Si andarono costituendo a Roma, Padova, Milano, Bologna, Genova, importanti gruppi antifascisti: ma l’azione del Partito rimase comunque molto debole, e nel 1939 fallì il tentativo di impiantare un centro interno.
Quando l’Italia entrò in guerra, il 10 Giugno del 1940, il centro estero del PCI, nonostante l’URSS avesse stipulato con la Germania un trattato di non-aggressione noto come patto Molotov- Von Ribbentrop che aveva causato grande sconcerto nel Partito (vennero espulsi Terracini e Camilla Ravera, in seguito riammessi, e si allontanarono definitivamente dal PCI Ignazio Silone e Altiero Spinelli), si pronunciò apertamente contro la guerra, non voluta dal popolo italiano, dichiarando che l’Italia aveva un solo nemico, il fascismo.
Dopo il 25 Luglio 1943 e la caduta del fascismo, mentre la maggior parte dei detenuti politici uscì dal carcere, tornò a riunirsi (29 Agosto) la direzione del PCI, dividendosi in due gruppi, uno a Roma e l’altro a Milano.
Togliatti rientrò dall’Unione Sovietica a Napoli, nel marzo del 1944.
Con l’8 Settembre 1943, la rottura con i tedeschi e l’avvio della guerra di Liberazione, i comunisti assunsero un ruolo di protagonisti, che li vide poi in primo piano nei decenni successivi.
Si aprì, frattanto, una discussione sull’atteggiamento da assumere verso la Monarchia.
La discussione venne risolta da Togliatti al suo ritorno in Italia, con l’intervento al I congresso nazionale del PCI nelle zone liberate e con la risoluzione approvata al termine di quella riunione (fine marzo 1944).
Si trattò della svolta “partecipazionista” di Salerno, con la quale venne affermata la necessità di consolidare l’unità delle forze democratiche e liberali antifasciste, e venne rinviata la soluzione del problema istituzionale alla fine del conflitto.
Il problema di fondo, di assai difficile risoluzione, rimase quello del rinnovamento nelle strutture della democrazia italiana.
Su questo tema discusse a Roma, alla vigilia della grande insurrezione finale al Nord, il II consiglio nazionale del Partito.
Fu questo l’oggetto del dibattito fra le forze politiche antifasciste all’indomani del 25 Aprile 1945 e nei primi mesi di attività del governo Parri (giugno-dicembre 1945), di cui i comunisti entrarono a far parte in condizioni di parità con i rappresentanti degli altri partiti italiani.
A quasi quindici anni di distanza dal precedente congresso clandestino di Colonia-Dusseldorf, il V congresso del Partito (il  primo nell’Italia liberata dopo la sconfitta del nazismo e del fascismo) ebbe luogo a Roma dal 29 dicembre 1945 al 5 Gennaio 1946.
Preceduto da una riunione costitutiva della Direzione (8 gennaio 1945), nel corso della quale venne indicato come segretario generale Palmiro Togliatti, il V congresso si svolse in un momento politico assai delicato, in cui cominciavano ad affiorare, sul piano interno e su quello internazionale, le prime incrinature dell’unità antifascista realizzatasi durante la Resistenza.
Il referendum del 2 Giugno 1946 assegnò la vittoria alla Repubblica con 12.717.923 voti contro 10.719.284 andati alla Monarchia, mentre il PCI si affermò alle elezioni per la Costituente come il terzo partito italiano (18,9%), dopo la DC (35,2%) e il PSIUP (20,7%).
Nel maggio del 1947 avvenne la rottura del governo di ricostruzione nazionale: comunisti e socialisti furono estromessi dal gabinetto De Gasperi.
In  questo quadro si svolse a Milano (5-10 Gennaio 1948) il VI congresso del PCI, che segnò un momento di ripiegamento del Partito su sé stesso e una ripresa dei tradizionali temi rivoluzionari.
Per le elezioni indette nell’aprile del 1948 la scelta fu quella della lista unica con il PSI sotto la bandiera del “Fronte Democratico Popolare”.
L’esperienza non risultò positiva: il voto del 18 Aprile diede alla DC la maggioranza quasi assoluta.
Pochi mesi dopo si registrarono la scissione del movimento sindacale, l’attentato a Togliatti (luglio’48) e le violente agitazioni popolari che a esso fecero seguito.
Con l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico (aprile 1949), in periodo di piena guerra fredda, la politica estera divenne uno dei terreni di più profonda contrapposizione politica e di divisione dell’opinione pubblica, che proseguirà per tutti i primi anni ’50: almeno fino a quando la sconfitta della “legge truffa” (7 Giugno 1953) costituirà il primo segno delle modifiche in corso negli orientamenti dell’opinione pubblica.
Il XX congresso del PCUS (febbraio’56) determinò, con la denuncia dei crimini staliniani voluta da Kruscev, un riesame delle esperienze e delle politiche portate avanti dal movimento comunista internazionale.
Si determinò una profonda crisi : in Ungheria la sollevazione popolare verso il regime comunista venne duramente repressa dall’intervento armato sovietico (novembre 1956).
La discussione sulle tesi del XX congresso, e la riflessione critica sui fatti d’Ungheria, dominarono in quei mesi la vita del PCI che aveva approvato l’intervento armato, causando sconcerto nel sindacato e abbandono in alcuni settori intellettuali legati al Partito, che espressero il loro dissenso pubblicando il “Manifesto dei 101”.
L’VIII congresso (Roma 8-14 Dicembre 1956) risultò così fondamentale nella storia del PCI.
In quell’assise il Partito fornì una prima conclusione al contrastato dibattito svoltosi nei mesi precedenti, avviando una analisi sui caratteri originali in cui si presentava, in Italia, il processo della rivoluzione democratica e socialista.
L’VIII congresso passò dunque alla storia come il congresso della “via italiana al socialismo” e del “rafforzamento del Partito” emblematizzati dalla sostituzione di Pietro Secchia al vertice della potente sezione di organizzazione con Giorgio Amendola.
Il X congresso (Roma 2-8 dicembre 1962) si svolse mentre era già in atto la prima esperienza di centro-sinistra (Governo Fanfani con l’appoggio esterno dei socialisti).
Togliatti svolse in quell’occasione la sua ultima relazione a un Congresso, affrontando il problema della prospettiva, ormai aperta, dell’incontro tra cattolici e socialisti e, sul piano internazionale, del contrasto ormai in atto tra Sovietici e Cinesi.
Alle elezioni politiche del 1963 il PCI compì una grande avanzata, toccando il 25,31% dei voti, corrispondenti a quasi otto milioni di elettori.
Furono gli anni in cui maturò il processo dell’incontro tra DC e PSI e della formazione governativa del centro-sinistra.
Nel dicembre del 1963 si formò il primo governo con la partecipazione diretta del PSI, guidato da Moro.
Sul piano internazionale scomparvero, uno dopo l’altro, i grandi personaggi che avevano dato inizio alla politica di coesistenza pacifica: Kennedy, Giovanni XXIII.
Il 22 Agosto 1964 alla vigilia di un importante incontro con Krusciov, morì a Yalta Palmiro Togliatti.
Luigi Longo venne designato dal Comitato Centrale alla successione di Togliatti.
Longo svolse la relazione all’XI congresso (Roma, 25-31 Gennaio 1966), il primo nel corso del quale emersero elementi di differenziazione negli orientamenti politici tra esponenti del Partito (la “destra” di Amendola, la “sinistra” di Ingrao) sull’analisi e sulle scelte da sviluppare per contrastare il centrosinistra.
La situazione politica italiana subì, in quegli anni, una potente accelerazione. Si stava avviando a conclusione il ciclo del cosiddetto “miracolo economico” che aveva caratterizzato gli anni’60.
Gli anni ’67-’68-’69 furono contrassegnati dal movimento studentesco e da nuovi processi unitari tra i Sindacati, che reclamavano una urgente modernizzazione.
Sul piano internazionale gli avvenimenti centrali furono la guerra in Vietnam, e la crisi cecoslovacca dell’agosto 1968, culminata con l’intervento delle truppe del patto di Varsavia.
A differenza di quanto accaduto con gli avvenimenti ungheresi di 12 anni prima, l’ufficio politico del PCI espresse “grave dissenso” e “riprovazione” per l’intervento militare.
Nonostante ciò il PCI non ruppe il legame diretto con l’URSS.
Nel corso del XII congresso (Bologna 8-15 Febbraio 1969) si definì la separazione dal Partito del gruppo del “Manifesto” (i cui principali esponenti erano membri del Comitato Centrale come Rossana Rossanda e Luigi Pintor).
Il gruppo del “Manifesto” reclamava l’immediata rottura con il PCUS e l’apertura di una dibattito interno non vincolato dalle regole del “centralismo democratico”, mentre il gruppo dirigente del Partito, preoccupato dai rischi di tenuta democratica presenti nella “strategia della tensione” (strage di Piazza Fontana, Milano, 13 Dicembre 1969) scelse una via di gradualità e di aggregazione di un nuovo “blocco storico” formato da ceti sociali diversi.
Berlinguer, eletto Segretario nel Congresso di Milano (13-17 Marzo 1972), mentre Longo era già ammalato divenne Presidente, avanzò attraverso tre articoli apparsi successivamente su “Rinascita” (settembre 1973) una proposta che scosse profondamente la vita politica italiana: “ il compromesso storico”.
Da una analisi che traeva spunto dal drammatico epilogo dell’esperienza di “Unitad Popular” in Cile con l’assassinio del Presidente Salvador Allende, Berlinguer approdò alla conclusione che lo sviluppo della democrazia non potesse essere assicurato se non dal convergere di sforzi unitari tra tutte le forze popolari e democratiche: offrendo così a DC, PSI laici intermedi una apertura per una diretta collaborazione di governo.
Nel 1974 il 12 Maggio si svolse la prova del referendum sul divorzio, il 59% dell’elettorato si pronunciò per il mantenimento della legge sconfiggendo la posizione della DC e delle destre.
Si venne così a creare una situazione politica completamente nuova: il PCI ottenne un vistoso risultato alle elezioni amministrative del 1975, raggiungendo il 33,4% e superando i dieci milioni di suffragi.
Ma il successivo voto politico del 20 Giugno 1976, permise alla DC di mantenere le proprie posizioni: il PCI toccò il 34,9% e 12.620.000 voti.
Si formò quindi il “governo delle astensioni” laddove il PCI consentì la formazione di un monocolore DC, guidato da Andreotti, inaugurando la stagione della “solidarietà nazionale”.
La crisi economica e l’escalation del terrorismo, emblematizzata dall’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta (1978) resero fallimentare quell’esperimento che il PCI  interruppe nell’inverno dello stesso anno.
Berlinguer adottò, successivamente, la strategia della “alternativa democratica” (febbraio 1981) accentuando le caratteristiche di “diversità del PCI” sui temi della pace, della “questione morale”, della difesa delle categorie operaie (lotta dei “35 giorni alla Fiat” nell’autunno del 1980, scontro sui punti di scala mobile tagliati dal governo Craxi nel febbraio 1984).
La scomparsa di Enrico Berlinguer avvenuta tragicamente nel corso della campagna elettorale per le Europee del 1984, lasciò un vuoto nella direzione politica del Partito, chiamato ad affrontare una fase particolarmente complessa sia sul piano dei rapporti internazionali (distacco dall’URSS, in esito alla crisi polacca del 1981), della situazione italiana (governi di pentapartito presieduti dai non democristiani Spadolini e Craxi), di mutamenti sociali profondi, causati da significative modifiche nel rapporto tra tecnologia e produttività, nella velocità dei mezzi di comunicazione di massa, nella relazione tra territorio e ambiente.
Mutamenti strutturali, che il PCI stentò ad analizzare compiutamente, anche perché fortemente diviso in una forma di difficile esplicitazione esterna, per via del retaggio storico del centralismo democratico e del peso di un funzionariato eccessivamente legato a una gestione burocratizzata del Partito.
Subentrato Alessandro Natta nel ruolo di Segretario il PCI subì una grave sconfitta col referendum sulla scala mobile (giugno 1985), non fermato dal tentativo di integrazione nella sinistra europea (XVII congresso Firenze, aprile 1986).
Nelle elezioni politiche del 1987 il PCI ritornò così ben al di sotto della soglia del 30% (nelle elezioni politiche del 1983 il PCI aveva ottenuto il 29,9%, alleandosi con il piccolo Partito di Unità Proletaria, attraverso il quale il gruppo del “Manifesto” aveva assunto specifica dimensione organizzativa eleggendo segretario Lucio Magri).
Nel 1984 gran parte dei militanti del PdUP rientrarono nel PCI, mentre l’ala più massimalista della “nuova sinistra” sessantottina aveva costituito il partito di Democrazia Proletaria.
Nell’estate del 1988 Natta fu sostituito alla Segreteria di Achille Occhetto.
Si aprì la strada alla definitiva trasformazione del Partito che, in concomitanza con la caduta dei regimi dell’Est, si realizzò nel triennio 1989-1991.
STRUTTURA ED INSEDIAMENTO SOCIALE
Il “Partito Nuovo” di Togliatti nacque, all’indomani della Liberazione, con la decisione di abbandonare la concezione del Partito di quadri e trasformare il PCI in un partito di massa largamente radicato nella società.
Il Partito cercò così elettori e iscritti in quasi tutti i gruppi e i ceti sociali: dagli agricoltori, ai fittavoli, ai braccianti, dagli operai dell’industria, ai nuovi ceti medi e ai piccoli e medi industriali.
Malgrado tutti gli sforzi dei dirigenti questa presenza sociale del PCI, fino a buona parte degli anni’60, si limitò essenzialmente alla classe operaia del Nord e ai vecchi “ceti medi” del Nord e del Centro (artigiani, piccoli industriali, cooperatori).
La massiccia emigrazione interna, la crescente urbanizzazione, la laicizzazione diffusa attenuarono tuttavia gradualmente i vincoli del singolo, con la propria tradizionale area culturale.
Di conseguenza, di fronte all’aggravarsi della crisi sociale ed economica, aumentò sempre di più il numero delle persone che si sentivano attratte da quelle forze politiche che propugnavano un superamento della crisi, un ammodernamento dello Stato e della Società, oltreché una maggiore giustizia sociale.
Il PCI guadagnò così in misura più che proporzionale, e in modo spettacolare con le elezioni del 1975 e del 1976 un gran numero di voti fra le donne, i cattolici praticanti e i ceti urbani occupati nel settore dei servizi e in quello dell’istruzione.
In quella fase il PCI riuscì anche a compiere notevoli puntate in quelle zone precedentemente dominate dalla DC, grazie soprattutto alla sua forte caratterizzazione cattolica, come nel Veneto, nel Mezzogiorno, nelle Isole.
L’espansione della presenza nella Società, che dal punto di vista della struttura dell’elettorato fece apparire il PCI come  un “Partito popolare di sinistra”, in verità portò solo in minima misura una modificazione nella composizione di massa dei suoi iscritti.
Gli operai continuarono a costituirne il nerbo (circa il 50% nel 1977).
Se si calcolano i pensionati e le casalinghe, il potenziale classico del Partito salì in quel periodo al 79%.
Quei gruppi sociali che, negli anni’70 contribuirono fortemente ai successi elettorali del PCI, ossia l’intellighenzia scientifica e tecnica, liberi professionisti e gli addetti ai settori dei pubblici servizi, furono invece chiaramente sottorappresentati nelle fila del Partito.
La composizione sociale dei quadri intermedi rilevò, invece, una tendenza opposta.
Infatti mentre nel 1975 gli operai costituivano il 50% dei segretari di sezione, rappresentavano soltanto il 36% dei delegati al XIV congresso e scendevano al 24,9% nei componenti dei Comitati federali.
Il PCI ebbe sostanzialmente i caratteri di un Partito con una strategia radical- socialista rivolta alle riforme.
In questo modo il PCI divenne il principale antagonista e concorrente della DC.
I Comunisti Italiani, se furono soddisfatti dalla tendenza dell’elettorato tradizionale di Centro-sinistra a scivolare verso il PCI furono, invece, contrari a una mera identità con il PSI e a una polarizzazione del sistema politico italiano.
La creazione di un “grande partito della sinistra”, di cui pure si parlò subito dopo il 1945 e più tardi nel 1964/65, non risultò così praticamente attuabile.
Il PCI non riuscì, in sostanza, a sciogliere il nodo decisivo di una pratica dell’opposizione, attraverso il modello di un sistema dualistico tra un Partito Cristiano-conservatore e un grande raggruppamento socialista, o un tentativo di sostituire la DC come Partito egemonico accelerando, da una posizione di preminenza, la sperimentazione della “via italiana al socialismo”.

IL PARTITO SOCIALISTA ITALIANO (PSI)
Fondato nel 1892, il PSI è stato il più vecchio partito del movimento operaio italiano.
Ricostituito nel 1943 (come Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria: PSIUP) esso ha portato successivamente a termine un processo di modificazione imposto da circostanze esterne, che non ne ha cambiato soltanto la struttura interna e la composizione dell’elettorato, ma ne ha notevolmente mutato anche la sua posizione e la sua funzione nel sistema partitico.
Fino alla metà degli anni’50 il PSI (che aveva ripreso la denominazione di Partito Socialista Italiano, nel 1947, dopo la scissione dei socialdemocratici) ha presentato una compattezza e una disciplina tali da somigliare, sotto diversi aspetti al centralismo democratico del PCI.
Successivamente però il proliferare delle correnti e le lotte tra i suoi dirigenti lo hanno portato, piuttosto, ad assomigliare alla DC.
Quello che era stato un partito operaio con forti radici nei sindacati e con roccaforti nelle città industriali del Nord-Ovest, divenne al confronto un partito di modeste dimensioni, diretto prevalentemente da intellettuali e nel quale predominavano elementi provenienti dai ceti medi.
Se nel 1946, con il 20,6% dei suffragi il PSI era stato il secondo partito all’Assemblea Costituente, nel 1948 soltanto 50 erano i deputati socialisti tra i 183 eletti nelle liste del Fronte Democratico Popolare.
Nel 1953 i socialisti si rivelarono come le vere vittime dell’anticomunismo: il loro 12,7% significava una perdita dell’8% rispetto al 1946, mentre il PCI malgrado la guerra fredda, aveva potuto guadagnare il 3,7%.
La polarizzazione politica interna, che non aveva recato danno all’organizzazione comunista, aveva già provocato nel 1947 la scissione dei socialdemocratici dal PSI.
A questo punto i socialisti temettero che il contatto con i comunisti li potesse spingere nell’isolamento rispetto al PCI, costringendoli in tal modo a pagare un prezzo ancora più alto.
L’alleanza tra il PCI e il PSI, che dopo il 1953 si basava comunque più su una difesa comune che su di una concordanza politica, si ruppe quando, mutata la posizione della DC guidata da Fanfani, si offrì ai socialisti una alternativa strategica rispetto a quella del Fronte Popolare.
Nel 1956 si realizzò il primo incontro formale tra Nenni e Saragat, in cui si parlò di una possibile riunificazione tra i due partiti.
La denuncia dello stalinismo al XX congresso del PCUS, rafforzò le tendenze autonomistiche all’interno del PSI, tanto che nel 1957 l’alleanza con il PCI si dissolse del tutto.
In tal modo la condizione posta dalla DC, per una successiva partecipazione socialista al governo si era praticamente realizzata.
L’ingresso dei socialisti nell’esecutivo avvenne nel 1963.
I risultati, tuttavia, non furono soddisfacenti perché i propositi riformisti del Psi si scontrarono con la resistenza di larghi settori della DC, e con la necessità di fare i conti con la recessione economica allora in arrivo.
Nel 1964 l’ala sinistra lasciò il PSI, dando vita a un Partito socialista di sinistra che riprese la denominazione del PSIUP. Due anni dopo PSI e PSDI si riunificarono nel PSU (Partito Socialista Unitario).
Il risultato delle elezioni del 1968, in cui il PSU è rimasto del 5,4% al di sotto dei voti che i due partiti avevano totalizzato separatamente nel 1963 (mentre il PSIUP conquistò subito il 4,5% dei suffragi) fece comprendere ai socialisti che ancora una volta era toccato a loro pagare il conto politico, al posto di un altro partito (questa volta la DC, che aveva guadagnato lo 0,8%).
L’ottimismo riformista che, in una certa misura, poteva ancora esistere nel PSI al momento della fusione nello PSU, venne distrutto nel 1969 dall’ “autunno caldo” che, sotto la spinta radicale degli studenti e degli operai, fece svanire qualsiasi aspettativa dei socialisti di poter realizzare le iniziali speranze di riforma attraverso una coalizione diretta dalla DC.
Inoltre l’ulteriore restringersi dello spazio elettorale intercorrente tra i due maggiori partiti, DC e PCI, portò nella maggioranza socialista del PSU il timore di perdere la propria ragion d’essere.
Per tale motivo venne compiuto, in un primo tempo, lo sforzo di compensare la duplicità della propria posizione (mezzo partito di governo, mezzo partito di opposizione) con una linea chiara di sinistra e con un riavvicinamento al PCI.
I socialdemocratici si opposero a questo piano, e nel 1969 il PS fu sciolto.
Il PSI rimase nella coalizione di centro-sinistra, ma al tempo stesso accrebbe i contatti con i comunisti, con i quali nel 1970 costituì la giunta in tre regioni, riprendendo quei rapporti sul piano amministrativo locale, che erano stati pressoché totalmente interrotti attorno al 1966, attraverso una estensione generalizzata di giunte on la DC.
Tuttavia come Partito che collaborava con i comunisti, ma al tempo stesso non voleva rinunciare ai vantaggi acquisiti stando al governo, il PSI non rappresentò una alternativa credibile rispetto ai comunisti e ai socialdemocratici, che apparivano in paragone più coerenti.
Così nelle elezioni del 1972, con il 9,6%, il PSI toccò il punto più basso dal 1946.
Incoraggiati dal risultato delle elezioni regionali del 1975 (quando raccolsero il 12%) dei voti che consentì la costituzione di altre giunte regionali con il PCI, l’anno dopo i socialisti fecero mancare il loro appoggio alla DC, provocando nuove elezioni nella speranza, con questo ulteriore passo sulla via del rientro nel campo della sinistra, di poter maggiormente beneficiare della tendenza verso sinistra, che in quel momento era in atto presso l’elettorato italiano.
Nella campagna elettorale il PSI cercò di presentarsi come alternativa sia al PCI sia alla DC, proclamando come suo obiettivo la formazione di un governo di sinistra con il PCI e i “cattolici progressisti”.
Il risultato di quell’ennesimo cambiamento di linea fu rappresentato da un nuovo calo di voti, scesi al 9,6%.
Dopo le elezioni del giugno 1976 si verificò nel PSI una rivolta contro i vecchi dirigenti, ai quali la leva dei giovani uomini politici rimproverava di aver contribuito al tramonto del Partito con le loro lotte di potere, e l’accettazione della pratica democristiana del sottogoverno.
La vecchia guardia del PSI (Nenni, De Martino, Lombardi) dovette controvoglia ritirarsi davanti ai giovani capeggiati dal nuovo segretario Bettino Craxi, il cui compito principale fu quello di impedire che il PSI perdesse completamente la sua ragione d’essere in seguito al “compromesso storico”.
Esaurita la fase dei governi di solidarietà nazionale, dentro i quali i socialisti mostrarono particolari segni di irrequietezza, rompendo il “fronte della fermezza” in occasione del rapimento Moro (con la sola eccezione del futuro Presidente della Repubblica, Pertini, molto legato allo schema unitario a sinistra) il PSI risultò decisivo per la costituzione del pentapartito.
La segreteria Craxi, dopo aver smantellato le opposizioni interne e assorbito le correnti di sinistra di De Michelis e Signorile (congresso di Torino 1978 e congresso di Palermo del 1981) perseguì nei primi anni’80 una strategia di forte autonomia politica puntando sulle innovazioni metodologiche della governabilità e del decisionismo (nell’intuizione dell’avviarsi di un’era post-industriale e di una crescita dell’individualismo quale concezione sociale dominante).
Craxi assunse, primo socialista della storia d’Italia, la presidenza del Consiglio nell’estate del 1983.
La mancata corrispondenza della strategia impostata dal segretario socialista (e riassunta dal vice-segretario Claudio Martelli nella formula “meriti e bisogni”) con una adeguata crescita elettorale (l “onda lunga” e il “riequilibrio a sinistra”,  che non si verificò nonostante il costante calo nei consensi elettorali del PCI) autonomizzarono sempre più la strategia di potere del PSI, esponendolo ai rischi della “questione morale” (di cui si ebbero le avvisaglie fin dal 1983, con i casi Biffi Gentili a Torino e Teardo a Savona) che esploderà all’inizio degli anni’90, determinando quel vero e proprio terremoto politico che ha rivoluzionato l’intero sistema.

STRUTTURA SOCIALE
A partire dall’inizio degli anni’60 il PSI modificò, anche da un punto di vista sociostrutturale, il carattere di Partito operaio che aveva avuto nel dopoguerra,
Distanziandosi dal PCI esso poté conquistare, soprattutto al Sud, elettori e iscritti, i quali pensavano che, come Partito non comunista e legittimato a governare, il PSI rappresentasse una “non pericolosa” alternativa alla DC.
Gli operai rappresentarono ancora, anche in quel periodo, il gruppo più forte dell’elettorato del PSI, ma la loro percentuale si abbassò a vantaggio dei ceti medi e di quelli non produttivi.
Se si guarda alla media dei voti socialisti, la percentuale abitualmente raccolta al Nord (dove un tempo il partito aveva i suoi bastioni nelle città operaie) si abbassò notevolmente, proprio a partire dagli anni’60.
Al contrario, proprio in quella fase, la percentuale di voti raccolta al Sud raddoppiò rispetto al 1946.
Il cambiamento del partito si rispecchiò anche nella composizione sociale della massa dei suoi iscritti.
Il PSI iniziò il ciclo politico del dopoguerra con 860.000 iscritti (1946), una cifra che non avrebbe poi più raggiunto.
Già nel 1964 ne aveva perduto più della metà (417.000 unità, subito dopo la scissione dello PSIUP).
Questo fatto non deve però far pensare che durante la sua lunga partecipazione al governo, il PSI non abbia reclutato nuovi seguaci.
Al contrario, in questo periodo affluirono al PSI nuovi iscritti che avevano caratteristiche diverse dai tradizionali militanti, soprattutto perché la loro adesione non era frutto di una consapevole identificazione con gli obiettivi ideologici del partito, ma derivava piuttosto (specialmente nel Sud) dalla disponibilità di numerose basi di sottogoverno nell’amministrazione pubblica e nelle Aziende Statali.
Nel periodo della segreteria Craxi il PSI poteva così contare su circa 660.000 iscritti.

POSIZIONE NEL SISTEMA DEI PARTITI
Nella fase centrale della sua esistenza, nel corso del dopoguerra, il PSI è stato caratterizzato dalla presenza di correnti, che assunsero quasi costantemente l’aspetto, non solo di correnti di pensiero e quindi di schemi di riferimento per una diversa diagnosi della realtà sociale e politica e soprattutto del ruolo in essa del partito, ma di vere e proprie frazioni organizzate, con apparati, agenzie di stampa, periodici veri e propri, in concorrenza con quelli ufficiali.
Già nel 1922, l’anno della presa del potere da parte dei fascisti, l’ala riformista guidata dal fondatore del PSI, Filippo Turati, aveva abbandonato il partito e fondato il PSU (Partito Socialista Unificato).
I due partiti si riunificarono nel 1930, quando si trovarono in clandestinità.
Mentre tuttavia la maggioranza socialista del PSIUP mantenne anche dopo la guerra il patto di unità d’azione con i comunisti stipulato nel 1934, Saragat e il suo gruppo nel gennaio del 1947 abbandonò il partito fondando il PSLI (Partito Socialista dei Lavoratori Italiani) che successivamente, con la confluenza di altre forze provenienti dai socialisti e da altri settori della sinistra, diventò PSDI (Partito Socialista Democratico Italiano).
Dopo l’allontanamento dei comunisti dal governo, i socialdemocratici rimasero nella coalizione centrista diretta dalla DC.
Il PSDI ha rappresentato per un lungo tempo il lato sinistro del blocco centrista, e in tale posizione ha cercato di operare verso quei settori della classe lavoratrice influenzati da PCI e PSI, non soltanto in campo politico, ma anche sindacale attraverso la formazione della UIL.
Al tempo stesso i socialdemocratici si proposero di rappresentare un ponte tra la DC e il PSI, allo scopo di allargare a sinistra l’area dei partiti governativi.
Fin dal 1956 gli esponenti socialdemocratici ebbero contatti con il PSI, allora ancora alleato con i comunisti: e quando la DC si orientò verso l’apertura a sinistra, i socialdemocratici si avvicinarono notevolmente ai socialisti.
Dopo che il PSI entrò nel centrosinistra e che, in conseguenza di ciò perse la sua ala sinistra, si effettuò la fusione con il PSDI (1966) dando vita  a un partito unificato denominato PSU.
Nella nuova formazione i socialdemocratici rappresentarono l’ala destra, al punto che, quando nel PSU la maggioranza socialista reagì al rinvio del progetto di riforma con una virata a sinistra e un riavvicinamento al PCI, uscirono dal Partito unificato (1969), proseguendo però la politica di centrosinistra, prima come PSU poi di nuovo come PSDI.
Da allora la storia dei socialdemocratici si è identificata con quella del blocco di governo di pentapartito (il PSDI partecipò anche al tentativo di ricostruzione del centrismo, svolto da Andreotti nel 1972) facendo registrare una progressiva caduta di autonomia politica e di perdita di consensi elettorali, in particolare nella fase coincidente con l’aggressiva gestione del PSI portata avanti da Bettino Craxi.
Negli anni’60-’70 il PSDI poteva contare su circa 300.000 iscritti: il gruppo più numeroso era rappresentato dalle casalinghe (27%), seguito dagli operai (24%) lavoratori autonomi (19%), ceti medi dipendenti (14%) imprenditori e liberi professionisti(4%).

PARTITO REPUBBLICANO ITALIANO
Fondato fin dal 1895, il PRI si richiamava alle tradizioni del movimento nazionale repubblicano del XIX secolo, guidato da Giuseppe Mazzini.
Ricostituito nel 1943 il PRI rifiutò di entrare nel governo dei partiti antifascisti del CLN, asserendo coerentemente con i propri principi che non ne avrebbe fatto parte fino a quando non fosse stata abolita la monarchia compromessa con il fascismo.
L’ingresso del PRI nel governo avvenne così con il secondo gabinetto De Gasperi, ossia solo dopo il referendum istituzionale e la proclamazione della Repubblica nel giugno 1946.
Da quel momento il PRI è stato il Partito che maggiormente ha sostenuto i diversi governi presieduti da democristiani, sia con la formula centrista che con quella del centrosinistra.
Tra il 1946 e il 1976 ad esempio, l PRI negò la fiducia soltanto in tre occasioni (1947, 1959, 1960).
L’influenza del PRI sulla politica italiana è sempre stata tradizionalmente superiore al peso effettivo del Partito, sia perché esso apparteneva a quell’area della “piccola sinistra” particolarmente importante per la DC sul piano delle alleanze, sia soprattutto perché ha sempre avuto a disposizione quadri dirigenti qualificati ed economisti di valore, che spesso si dimostrarono ministri particolarmente capaci (il segretario del PRI Ugo La Malfa fu autore, ad esempio, della celebre “nota aggiuntiva” sul bilancio dello Stato 1962: primo tentativo di impostare, nel nostro Paese, una “politica dei redditi”).
La politica del PRI si è ispirata non tanto a motivi ideologici, quanto piuttosto ai dati di fatto (soprattutto sul piano economico) e a obiettivi programmatici.
Il PRI svolse, anche nella fase terminale del pentapartito (all’interno del quale Giovanni Spadolini, subentrato come segretario del Partito alla morte di Ugo La Malfa avvenuta nella primavera del 1979, fu il primo democristiano a ricoprire, nell’estate del 1981, l’incarico di Presidente del Consiglio), la funzione di correttivo nei riguardi di DC e PSI.
Una funzione consistente nel cercare di indirizzare, attraverso una critica costruttiva, l’azione di governo verso obiettivi di efficienza e verso una programmazione conforme al sistema.
Come partito del “capitalismo illuminato” e grazie alla capace leadership del segretario Ugo La Malfa, il PRI divenne in misura sempre maggiore rappresentante degli interessi dei grandi gruppi industriali del Nord.
Il PRI è sempre stato, fra i piccoli partiti laici, il più severamente critico nei confronti dell’influenza esercitata dalla Chiesa (tramite la DC) sullo Stato.
Quest’atteggiamento venne conservato con chiarezza anche nelle coalizioni governative con i democristiani,
La base elettorale dei repubblicani è sempre rimasta piuttosto debole.
La ragione di ciò risiedette essenzialmente nel fatto che in tutti i grandi strati della popolazione sussistevano motivi di rifiuto verso il PRI: per i piccoli contadini esso era troppo anticlericale; per gli operai troppo strettamente legato alla grande industria; per la borghesia conservatrice troppo progressista.
Il partito conservò i suoi nuclei più fedeli di elettorato nelle Marche e, soprattutto, in Romagna, nel cui collegio conseguì tradizionalmente il “quorum” necessario per portare un gruppo di deputati in Parlamento.
Mediamente gli elettori del PRI erano composti per il 42% dai ceti medi, per il 33% da casalinghe, per il 3% da imprenditori e per il 9% da operai.
Il PRI toccò il massimo degli iscritti negli anni’80, con circa 120.000 aderenti.

PARTITO LIBERALE ITALIANO
Il declino dei liberali, che avevano governato l’Italia fin dalla nascita dello Stato nazionale e che all’inizio del secolo, con l’estensione del diritto di voto e la comparsa dei partiti di massa (socialisti e popolari) si trovarono di  fronte ad una forte opposizione, non venne interrotto neppure dopo la formazione del Partito Liberale avvenuta nel 1922.
Di modo che il nuovo Partito, pur avendo partecipato ai governi del CLN dopo il 1944, nelle elezioni per la Costituente non andò oltre il 6,8%.
Il suo antico elettorato era passato, infatti, alla DC.
Nelle elezioni del 1976 con l’1,3% e cinque deputati il PLI si trovò a essere il più piccolo partito del Parlamento, assieme al Partito Radicale, fondato da liberali di sinistra fuoriusciti nel 1954 e rifondato da Marco Pannella alla metà degli anni’60 sviluppando essenzialmente la tematica dei diritti civili.
In seguito il PLI registrò modesti incrementi percentuali, che non consentirono comunque al partito di uscire da una dimensione di sostanziale marginalità.
Dopo la seconda guerra mondiale il PLI è stato il più stretto alleato della DC contro i partiti di sinistra, sulla ricostruzione dell’economia di mercato completata dal Ministro del Tesoro Luigi Einaudi, successivamente eletto Presidente della Repubblica.
Dopo il 1954, sotto la guida di Malagodi, il PLI si trasformò sempre più da partito di intellettuali e notabili del Sud transitati al nuovo ordine dal periodo prefascista (Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando), in una rappresentanza organizzata dagli interessi, specialmente quella dei medi e piccoli imprenditori.
Il solo periodo di espansione elettorale fatto registrare dal PLI nel dopoguerra coincise con la fase di avvio del centrosinistra, quando una parte degli elettori democristiani votò liberale per protestare contro l’inserimento del PSI nel governo.
L’insediamento elettorale del PLI risultava tradizionalmente maggiore nel Nord-Ovest.
I ceti sociali più elevati (imprenditori, liberi professionisti, dirigenti) hanno sempre fornito al PLI la loro quota elettorale più consistente, mentre quella degli operai (10%) risultava la più bassa dell’intero arco politico, escluso il PRI.
Nella fase di pentapartito, in particolare durante la segreteria Zanone, i liberali puntarono a preparare la formazione di un fronte laico comprendente i partiti minori e avente buoni rapporti con i socialisti (le presentazioni elettorali comuni con il PRI, nelle occasioni delle Europee del 1984 e del 1989 non fornirono però buoni risultati).

MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO – DESTRA NAZIONALE (MSI-DN)
Il Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale, si è storicamente collocato all’estrema destra dello schieramento dei partiti italiani, quale partito antisistema e, come tale, non appartenente all’arco costituzionale.
La denominazione di Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale, risale al 1972 in seguito alla confluenza nell’MSI (Movimento Sociale Italiano, fondato a Roma da un gruppo di reduci di Salò nel 1946) del Partito democratico di unità monarchica (PDIUM).
I due partiti erano nati dalle ceneri del Fronte dell’Uomo Qualunque, fondato nel 1945 dal commediografo Guglielmo Giannini e sciolto due anni dopo, dopo un effimero successo elettorale (5,6% nelle elezioni per l’Assemblea Costituente).
Il Fronte dell’Uomo Qualunque, con il suo programma antiautoritario e antiparlamentare, aveva attirato i ceti medi del mezzogiorno sottosviluppato, impauriti dalla caotica situazione economica del dopoguerra.
Il PDIUM più che un partito politico era un’organizzazione di interessi personali, imperniato attorno ad uomini politici influenti e per la gran parte ricchi, circondati di consenso acquisito su base locale: questo, ad esempio, il caso dell’armatore Achille Lauro, che fece di Napoli la roccaforte dei monarchici ricoprendo a lungo la carica di sindaco della Città.
Il MSI invece, allora guidato dall’ex-vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano, Arturo Michelini, si sviluppò come partito dalla rigida organizzazione interna, attorniato da una rete di gruppi militanti.
In questo si registrò una continuità diretta con la “forma partito” del fascismo di Mussolini, al punto da consentire la definizione del MSI come “partito neo fascista”.
Negli anni’50 si aprì un conflitto tra il gruppo dirigente del Partito che spingeva per una “parlamentarizzazione” dell’MSI e che intendeva realizzare una coalizione di destra con DC,PLI. Monarchici (operazione che ebbe il suo culmine con l’appoggio al governo Tambroni, nella primavera – estate del 1960) e i gruppi neo-fascisti più militanti capeggiati da Pino Rauti.
Fra i contendenti si collocò allora Giorgio Almirante, cercando di collegare il fascismo parlamentare con quello extraparlamentare.
Eletto Segretario nel 1969 Almirante riuscì nel suo intento, tanto è vero che poco tempo dopo il gruppo rautiano di “Ordine Nuovo” rientrò nel partito.
Soprattutto a partire dagli anni’70 il MSI-DN cercò di canalizzare il malcontento delle popolazioni del Mezzogiorno, patrocinando gruppi protestatari e criticando aspramente la cosiddetta “partitocrazia”.
Alla morte di Almirante (1988) si aprì lo scontro per la successione tra Rauti e il delfino del defunto segretario, Gianfranco Fini.
Fini sostenuto soprattutto dal notabilitato meridionale (in particolare dal leader barese Tatarella, uomo di punta dei moderati) riuscì a spuntarla avviando una fase di trasformazione del Partito.
Al momento della massima espansione elettorale, all’inizio degli anni’70, il MSI-DN raccolse il vertice dei suffragi negli ambienti tradizionalisti del Sud con punte dell’11,5% a Napoli-Caserta, 12,7% nella Sicilia Orientale, 9,6% a Roma e nel Lazio.

TRANSIZIONE E METAMORFOSI DEL SISTEMA DEI PARTITI
Esaurita la fase di ascesa elettorale delle sinistre e dopo la grave crisi interna della DC connessa alla morte di Aldo Moro, apparvero mutati i termini del rapporto fra il maggior Partito Italiano e i suoi alleati.
In particolare la DC dovette confrontarsi con un partner particolarmente aggressivo, il PSI, deciso a superare insieme la subalternità ideologica al PCI e quella di potere alla stessa DC.
Una delle conseguenze di questa situazione fu il progressivo ristabilimento del sostanziale isolamento del PCI, e l’ascesa alla guida del governo di uomini politici non democristiani, prima il repubblicano Giovanni Spadolini (1981), poi lo stesso segretario socialista Bettino Craxi (giugno 1983-marzo 1987).
Negli successivi il PCI subì un netto calo elettorale e alla fine del 1989, indotto anche dalla crisi verticale dei regimi dell’Est europeo, Achille Occhetto, segretario del PCI da un anno e mezzo decise di cambiare nome al Partito in Partito Democratico della Sinistra (PDS), anche nell’intento di superare il principio non scritto dell’esclusione dei comunisti dal governo (“conventio ad excludendum).
Nello stesso tempo la strategia politica del PSI fu mirata attraverso un processo graduale ma sicuro di crescita elettorale, a stabilire un riequilibrio di forze con il PCI e giungere quindi in prospettiva a una nuova coalizione di governo, nella quale il PCI fosse un partito subalterno.
Ciò comportava, nel breve e nel medio periodo, la continuità della collaborazione con la DC, sia pure in termini concorrenziali.
Ma il PSI non  riuscì a crearsi una base sociale stabile pur continuando a crescere elettoralmente, e alla fine degli anni ottanta cominciò a puntare piuttosto su una radicale riforma istituzionale in senso presidenziale.
La Dc rimase partito di maggioranza relativa ma, tra alti e bassi, fu costretta ad agire su di una linea di estrema prudenza, nell’intento di conservare le proprie posizioni di governo, senza arrivare allo scontro frontale con i socialisti.
In realtà dalla fine degli anni’70 si era già verificata una progressiva involuzione nei rapporti tra la società e il sistema dei partiti, sempre più espressione di una gestione politica e amministrativa legata a una diffusa inefficienza e al mantenimento di rapporti clientelari.
Emerse quindi una profonda insofferenza, che è all’origine di un fenomeno che, per un lungo periodo, ha reso peculiare, in senso negativo almeno a nostro giudizio, il “caso italiano”.
Nel corso degli anni’80, le successive scadenze elettorali sono state, infatti, segnate dalla effimera crescita di formazioni politiche nuove: dapprima il Partito Radicale (1979 e 1983), poi i raggruppamenti “Verdi” (1987), e infine le Leghe localistiche.
Il maggiore di questi partiti, la Lega Nord di Umberto Bossi, ha fondato la propria crescita sull’ostilità contro i meridionali prima e contro gli immigrati extracomunitari poi, arrivando anche a proporre la divisione del Paese in varie forme (macro regioni, secessione, “devolution”).
Il fenomeno dei movimenti localistici, oggi in declino, è apparso per oltre un decennio l’espressione più vistosa della crisi di rappresentatività dei partiti storici, e delle difficoltà del sistema politico ad adattarsi ai più rapidi mutamenti della società di cui i fenomeni migratori hanno costituito una delle espressioni emergenti, in precedenza all’emergere della crisi economica globale dovuta a un gigantesco processo di finanziarizzazione dell’economia partito dagli USA e che ha trovato il suo epicentro in Europa, con una crisi verticale del debito pubblico di importanti paesi, fra i quali l’Italia.
Il sistema politico italiano venne dunque a trovarsi alla fine degli anni’80 in una situazione paradossale, mentre era sempre più evidente il disagio della Società, la situazione politica rimaneva sostanzialmente statica.
Un tentativo di uscire dalla situazione di stallo anche attraverso una riapertura della dialettica tra maggioranza e opposizione, portò come abbiamo già visto il segretario del PCI a cambiare il nome del partito e a dichiarare chiusa la vicenda del comunismo in Italia; nessuno dei possibili partner di una nuova coalizione parve realmente interessato alla prospettiva, mentre tutti espressero la volontà di avvantaggiarsi dall’indebolimento elettorale del secondo partito italiano.
Altre ipotesi di mutamento istituzionale vennero proposte nel 1990-91 da DC e PSI nell’intento di superare una fase, quella del pentapartito, che si stava dimostrando progressivamente soffocante per entrambi, pur non presentando alternative.
La scoperta di fenomeni diffusi di corruzione politico-amministrativa arrivati a toccare i vertici dei partiti di governo e fondati sull’utilizzo indiscriminato del debito pubblico, accrebbe la richiesta di un ricambio del ceto politico.
Nello stesso tempo, a minare la credibilità dei partiti di governo intervenne una forte pressione del crimine organizzato di carattere mafioso (delitti Falcone, Borsellino 1992).
Tra il 1992 e il 1994 la situazione precipitò portando al pratico scioglimento o alla trasformazione di tutti i partiti: si era così aperta quella fase che abbiamo denominato di transizione e di metamorfosi, dentro la quale sostanzialmente, tra passaggi diversi, si trova ancora il sistema politico italiano.

CONCLUSIONI
Questi brevi e sommari ragguagli sui partiti che hanno composto lo schieramento politico italiano nei primi quattro decenni del secondo dopoguerra, sulla loro sopravvivenza e sulle loro alleanze e scissioni, possono essere utilmente integrati da una analisi delle fratture (o cleaveges) sociali e politiche, che segnarono in quel periodo la storia del nostro Paese.
In generale possiamo dire che i partiti dell’Italia del dopoguerra furono capaci di ridefinire con successo i cleavages socio-economici ereditati dalla società pre-bellica.
Fratture come quelle nord-sud, tra città e campagna, tra agricoltura e industria, e in parte anche tra centro e periferia, non hanno dato, infatti, aggregazioni parlamentari alternative ai partiti.
Così come non è esistito un “partito del Sud”, né una alleanza meridionale in parlamento: analogamente non vi è stato alcun significativo partito o schieramento parlamentare agrario, in grado di superare i confini interpartitici.
Vi è stato semmai un gruppo di pressione, costituito dai “coltivatori diretti” all’interno della DC.
Inoltre non si formò alcun partito o schieramento parlamentare “industriale”, mentre la Confindustria si mosse all’interno dei partiti, più che trasversalmente a essi.
Infatti se è vero che il “cleavage” proprietari/salariati diede vita a una classe operaia sindacalizzata e orientata a sinistra in sede elettorale, tuttavia l’allineamento dei partiti di sinistra lungo questa frattura si incrinò e, addirittura, si ruppe in più occasioni, sul concetto di classe operaia, sul ruolo dei sindacati, sulle alleanze internazionali.
Furono dunque le fratture più strettamente politiche che diedero vita a loyaltes trasversali, rispetto ai partiti, o ad accordi tra i partiti e ad alleanza parlamentari.
Ci riferiamo soprattutto al “cleavage” riforme/rivoluzione e a quello confessionale, nonché ai tre “cleavages” che risultarono essere, per un lungo periodo, i più importanti: quello istituzionale, quello relativo al governo dell’economia e quello internazionale.
Il cleavage confessionale divise la DC, il MSI, i monarchici, che su questioni quali il divorzio e l’aborto assunsero posizioni comuni, dai partiti che riconoscevano esplicitamente il carattere laico del loro patrimonio culturale e ideologico (PLI,PRI,PSDI,PSI,PCI e, più tardi, i gruppi della nuova sinistra e il PR).
Il cleavage istituzionale divise invece i partiti antifascisti partecipi dell’ “arco costituzionale” (PLI,DC,PRI,PSDI,PSI,PCI) dai partiti che rifiutarono la Costituzione quale base del nuovo assetto politico, mentre a sua volta la frattura relativa al governo dell’economia di mercato vide schierati, da un lato, i fautori –appunto – dell’economia di mercato (PLI,DC,PRI,PSDI) e dall’latra i fautori di una economia fondata sulla programmazione e l’intervento pubblico, pur in diverse forme come il PSI e con un orientamento più marcatamente “statizzato” il PCI (almeno fino al 1976).
Con il passare del tempo, e con la presenza costante della DC al governo, tale fratture divenne però sempre meno chiara, nel senso che la DC si dimostrò sempre più favorevole all’intervento statale e il PSI si avvicinò all’economia di mercato, pur non rinunciando ai temi della programmazione.
Quanto al “cleavage” riforme/rivoluzione, esso unì dalla parte delle riforme tutti i partiti, ad eccezione del PCI, risultando decisivo per isolarlo, così come la frattura istituzionale risultò decisiva per escludere la destra monarchica e missina.
Il “cleavage” internazionale, da ultimo, saldò da una parte i partiti che avevano aderito al Patto Atlantico; in origine PLI,DC,PRI, successivamente il PSDI, più tardi ancora l’estrema destra e, infine, in precedenza al centrosinistra il PSI, mentre su tale posizione il PCI si spostò con grande cautela, permanendo al suo interno forti tendenze filo-sovietiche e neutraliste.
Tirando le somme, quattro delle cinque fratture politiche, appena analizzate divisero le forze del centrosinistra, il PSDI e il PRI, da quelle della sinistra, cioè dal PSI e dal PCI, risultando di fatto più profonde e decisive di quelle che separavano il PSDI e il PRI dalla DC.
Analogamente, le fratture che dividevano il PLI dai monarchici e dai missini furono più importanti di quelle, relative ai rapporti tra Stato e Chiesa e all’intervento statale in economia, che separarono il PLI dalla DC.
Questi elementi consentono di sostenere, per quel che riguarda il periodo storico preso in esame, che è stata l’eterogeneità storica, culturale, ideologica della sinistra da un lato, e della destra dal lato opposto, dovuta a “cleavages” interni e internazionali, a  determinare la stabile collocazione centrista del partito cattolico.
Successivamente, come abbiamo già avuto più volte occasione di ricordare, le rapide scomposizioni sociali, il velocizzarsi dei processi di  globalizzazione dell’economia con al centro un enorme sviluppo della “finanziarizzazione” e dell’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa, la caduta dei regimi dell’Est, l’esplosione di “Tangentopoli”, il procedere dell’unificazione europea, costituirono i fattori decisivi di sconvolgimento del quadro fin qui descritto e di apertura di una fase di transizione, all’interno della quale abbiamo verificato l’emergere di nuove contraddizioni quali quelle rappresentate dall’idea “separatista” e dall’affermazione del populismo personalistico, che hanno fortemente contribuito a mutare completamente il quadro del sistema politico italiano.


POST-FAZIONE
A questo punto il nostro lavoro potrebbe  considerarsi concluso, ma il tumultuoso mutamento avvenuto negli anni immediatamente successivi alla fase che abbiamo cercato di descrivere nel dettaglio e l’evidenziarsi di una lunghissima, non ancora conclusa a nostro giudizio, fase di transizione rendono necessario sviluppare ancora un minimo di analisi sommaria, al fine di individuare alcuni fattori utili a comprendere la realtà all’interno della quale, oggi nel momento della stesura di queste note, ci troviamo a operare.
Nel corso di questo processo di trasformazione cui abbiamo accennato il sistema partitico italiano ha mostrato alcuni elementi di continuità, accanto ad altri di cambiamento.
Per quel che concerne i cambiamenti si deve, prima di tutto, notare come l’area dei partiti post democristiani sia stata quasi continuamente in ebollizione e che questo ha condotto alla creazione di una serie di nuovi partiti (CCD, PPI, CDU, UDC, UDR, Udeur, DL, De, Nuova DC, Margherita) che hanno consentito in diverse forme la presenza politica di pezzi della vecchia classe politica democristiana.
La collocazione di questi partiti tra destra e sinistra è stata spesso instabile.
Dietro questa turbolenza è stato il fatto che la crisi del grande partito di governo dei primi quarant’anni della Repubblica ha lasciato dietro di sé un “capitale politico” (fatto di persone, interessi, relazioni, elettori) di dimensioni notevoli, ma incapace di ritrovare un principio unificatore.
Si ricordi, inoltre, che questa realtà si colloca in una zona dello schieramento politico che la bipolarizzazione del sistema ha teso a dividere sospingendola verso sinistra o verso destra.
Anche all’estrema sinistra e all’estrema destra si sono avute scissioni che hanno accresciuto la complessità delle coalizioni, ma tutto sommato in misura minore rispetto ai movimenti di centro che, potendo spostarsi da uno schieramento all’altro, dimostravano un maggiore potenziale di coalizione.
Per capire il processo di trasformazione avvenuto nel sistema partitico italiano nel corso degli ultimi 20 anni bisogna anche prestare attenzione a due livelli fondamentali di analisi: quello dei partiti e quello delle coalizioni, rese indispensabili dai nuovi sistemi elettorali con i quali si è votato tra il 1994 e il 2001 (misto maggioritario proporzionale) e nel 2006-2008 (proporzionale con premio di maggioranza e liste bloccate).
Se si considera solo il primo livello, quello dei partiti, si deve constatare che nonostante i sistemi elettorali più riduttivi a oggi il livello elevato di frammentazione, ben lungi dal diminuire è perdurato e anzi si è accresciuto: anche il tentativo di bipartitizzazione tentato con le elezioni del 2008 è largamente fallito, poiché il numero dei gruppi parlamentari si è accresciuto nel corso della legislatura, con una duplica scissione, sia dal PDL (FLI) sia dal PD (API), tornando quindi alle dimensioni del multipartitismo cos’ come individuato da Sartori all’epoca del sistema proporzionale usato tra il 1946 e il 1992.
L’esistenza delle coalizioni (comunque accettate dall’elettorato) ha per un verso semplificato il panorama dell’offerta politica, ma contestualmente, la loro frammentazione interna ha reso loro la vita tutt’altro che facile, mostrando continue tensioni sia sulla questione della leadership che sulla messa a punto delle piattaforme programmatiche e della loro attuazione.
Nel centro-destra dove la scelta del leader di coalizione è stata sinora meno difficile, i problemi hanno riguardato piuttosto lo stile e l’esercizio della leadership fino a costituire elemento quasi decisivo per la probabile conclusione dell’esperienza, con la crisi del Novembre 2011.
Ne centro-sinistra, invece, l’individuazione del leader è sempre stata più problematica.
Scegliere un leader di partito ha condotto, inevitabilmente, a un dilemma: l’opzione più naturale, quella del partito maggiore, cioè il partito postcomunista (PDS, poi DS) avrebbe dato alla coalizione una immagine troppo di sinistra che i partiti di centro non erano disposti ad accettare (per paura di perdere i propri elettori).
D’altra parte questi partiti, il PPI prima, la Margherita poi erano troppo piccoli per poter avanzare una forte rivendicazione alla guida della coalizione.
L’altra scelta possibile era quella di un leader che non potesse essere identificato con alcun partito e in base a questo potesse essere più largamente accettato da tutti.
Tra il 1994 e il 2007 la coalizione di centro-sinistra ha operato scelte diverse: con Occhetto (PDS) nel 1994 e Rutelli (Margherita) nel 2001 è stata guidata una volta dal partito maggiore ma più di sinistra e un’altra da quello di un partito più piccolo ma più centrale.
Con Prodi nel 1996 e nel 2006 ha scelto come guida una figura in posizione di relativa indipendenza dai partiti.
Nell’intervallo tra le elezioni sono stati utilizzati sia un leader di partito (D’Alema, dei DS) sia un personaggio più indipendente (Amato).
A oggi l’unico leader capace di vincere le elezioni per la sinistra è stato Prodi, cioè un leader senza un vero partito alle spalle (anche se con un passato democristiano).
Questa soluzione ha tuttavia prodotto un certo grado di tensione tra i partiti allora esistenti e il leader che, implicitamente o esplicitamente, si era posto come ispiratore di una nuova aggregazione politica capace  di andare al di là di questi.
Da questa dinamica si era così avviata la proposta di un nuovo partito che unisse le forze principali del centrosinistra ponendo quindi le condizioni per superare queste difficoltà.
I primi esperimenti in tale direzione sono stati la presentazione di una lista “Uniti nell’Ulivo” alle elezioni europee del 2004, e soprattutto le elezioni primarie del 2005 (una novità assoluta nel panorama politico italiano, mutuata dal modello statunitense, applicato però con variazioni semplificatorie tali da renderlo, a nostro giudizio, scarsamente efficace al fine della costruzione di una leadership capace di collocarsi oltre alla realtà rappresentata dai partiti membri della coalizione e partecipanti –appunto – alla concretizzazione di questo meccanismo di scelta: una situazione che appare non superata anche nel momento in cui stiamo sviluppando questa riflessione).    
Successivamente Margherita e Democratici di Sinistra hanno presentato alle elezioni del 2006 una unica lista alla Camera, formando un gruppo parlamentare unitario in entrambi i rami del Parlamento.
Nella primavera del 2007 i due partiti hanno decretato la fusione e avviato il processo di formazione del nuovo “Partito Democratico”, che nell’autunno dello stesso anno, seguendo il metodo delle “primarie” (dimezzate nel senso indicato poc’anzi) ha portato all’elezione di Veltroni come leader dello stesso partito.
Il processo avrebbe dovuto ridurre significativamente la frammentazione del centrosinistra, lanciando l’idea della cosiddetta “vocazione maggioritaria” ma si è rivelato immediatamente di problematica attuazione, come è stato testimoniato dal fatto che sin dall’inizio ha prodotto una nuova scissione a sinistra dei DS e, in un primo tempo, a una diaspora silenziosa dalle fila della Margherita, fino ad arrivare, nel post-elezioni 2008, a una vera e propria scissione organizzata anche da quel lato attraverso la formazione dell’API guidata da Rutelli.
Le elezioni del 2008 hanno rappresentato per il PD, il suo leader Veltroni, l’idea della “vocazione maggioritaria” il punto di apparente non ritorno di una disastrosa sconfitta i cui esiti non sono stati ancora assorbiti, tanto più che, contestualmente, sul versante di centrodestra, che aveva pure tentato la via di una riunificazione partitica assemblando Forza Italia con AN e limitando il quadro delle alleanze alle sole formazioni rappresentative della frattura “centro/periferia” Lega Nord e MPA (rappresentativa di una realtà locale ben definita come quella siciliana), si è verificata la scissione prodotta dall’ex-leader di AN, Fini e la sua confluenza in un “terzo polo” formato – appunto – dagli ex democristiani dell’UDC e dalle nuove formazioni di FLI e API, a dimostrazione, come vedremo meglio esaminando la fase conclusiva dell’esperienza di governo di centrodestra, di una sostanziale incapacità del sistema di reggere lo schema bipolare e di produrre, nella crisi verticale dell’economia e del rapporto tra società e politica, un efficace meccanismo di alternanza di governo.
Il grande mutamento nel sistema dei partiti italiani non ha riguardato solo la dimensione sistemica del rapporto tra gli attori in competizione, ma anche l’organizzazione stessa dei partiti e la loro capacità di interagire con la società civile.
Un tema questo, oggi più che mai al centro del dibattito e stimolato sia dalla richieste “interne” alla politica di nove forme che hanno accompagnato sia il processo di costruzione del Partito Democratico, sia del Popolo delle Libertà (nel quale è bene ricordarlo confluirono anche una serie di micro-soggetti di dimensione quasi personali, i cui imprenditori politici si sono poi resi protagonisti, nel corso della XV legislatura, del fenomeno di “transumanza parlamentare” più vistoso di tutta la storia repubblicana), ma anche di altri input che spesso hanno assunto spesso le sembianze della minaccia antipolitica, o comunque rivelano sentimenti antipartitici.
I partiti hanno dimostrato grande debolezza rispetto a questo tipo di sfida.
Il primo elemento da rilevare, sotto questo aspetto, è la conferma della complessità di un sistema politico che ospita modelli organizzativi significativamente diversi tra loro, a dispetto delle ipotesi a lungo proposte dalla letteratura, da Max Weber in poi fino a Duverger, sulla tendenza alla convergenza tra le “forme partito” adottate nel contesto democratico.
Tra il 1946 e il 1989, in Italia, il partito “di integrazione di massa” aveva sicuramente costituito un modello di riferimento per molte formazioni, in particolare per il PCI, ma anche per PSI e MSI, presentando le caratteristiche tipiche di questa forma, come una membership ampia e omogenea, un’organizzazione burocratica diffusa territorialmente e un’elevata capacità di controllo degli apparati su elettori ed eletti dei vari livelli.
Tuttavia la DC aveva presto mostrato i connotati di un “partito pigliatutto”, quello che in letteratura viene indicato come un’organizzazione anch’essa piuttosto diffusa ma attiva soprattutto nel legare alcuni “pezzi” di società attraverso il collateralismo cin gruppi che rappresentano culture e valori dominanti (in questo caso, per esempio, il mondo cattolico) e capace di rendere elevata la propria performance elettorale raccogliendo consenso in ampi strati sociali.
Non mancavano del resto altre modalità organizzative, come quelle dei partiti minori, i quali alla ricerca di pochi ma decisivi elettori di opinione mescolavano elementi organizzativi diverse, grazie alla presenza di “attivisti” fedeli e, nel contempo, di un generoso afflusso di risorse provenienti dal finanziamento pubblico della politica.
Le organizzazioni partitiche avevano subito già dagli anni’80 una significativa evoluzione oltre alla riduzione della membership e delle unità di base, nell’importanza attribuita dalla gente comune alle attività e ai messaggi culturali da essi prodotti, che era notevolmente diminuita nella considerazione collettiva.
Non è un caso che dagli anni’80 del secolo scorso in poi la capacità dei partiti di mobilitare la gente su specifiche tematiche politiche, fatta eccezione per i periodi elettorali, si fosse drammaticamente ridotta: come diminuita del resto è stata la loro influenza nel mondo economico, anzi il processo di globalizzazione e la spinta verso il “privato” ha portato a un vero e proprio rovesciamento di posizioni nel rapporto tra politica ed economia.
Per bilanciare tali cambiamenti e gli effetti negativi che hanno avuto sulle risorse controllate dai partiti, questi ultimi hanno perseguito con determinazione il ricorso crescente a contributi pubblici, sotto varie forme, unitamente, nello specifico del caso italiano, a una sorta di ipertrofia nel disporre del potere di nomina, attraverso la modifica della legge elettorale con la presentazione di liste bloccate, secondo le quali gli eletti dipendono esclusivamente da logiche di potere interne ai partiti stessi.
All’interno di questo stato di cose si è verificata una particolare modificazione nel modo d’essere dei partiti, nella loro struttura e forma: accanto al “partito-pigliatutti” cui si è già accennato, sono sorti, sul modello imposto dal centrodestra, anche a sinistra partiti “elettorali-personali”, fondati sulla figura di un solo “imprenditore politico” e dalla vita interna centrata proprio sul meccanismo di questa esasperata personalizzazione.
Questa profonda modificazione del sistema ha portato, alla fine, nel momento dell’assedio portato dai meccanismi violenti della crisi e della conclusione, prevedibilmente definitiva, della leadership populista di Silvio Berlusconi, a una fase di grandissima difficoltà del sistema stesso, esplicitatasi con la formazione di un governo, nel novembre 2011, definito presuntamente “tecnico” perché formato da esponenti non eletti in Parlamento.
Emergono così, mentre ci si incammina nel secondo decennio del XXI secolo, una serie di problemi del tutto irrisolti, che possono essere così sintetizzati:
Le questioni sono queste:
1) Il tema dei corpi intermedi sulla presenza dei quali all’interno del sistema debbono essere organizzate le scelte politiche, la promozione e la formazione dei quadri dirigenti. Nella sostanza il ruolo tradizionalmente affidato ai partiti politici, il cui processo di trasformazione/involuzione (pensiamo al partito “pigliatutti” e al partito “elettorale-personale”) si colloca sicuramente alla base della crisi sistematica attuale;
2) La realtà del tipo di sistema politico che è necessario organizzare rispetto alle evidenti novità intervenute nella relazione tra società e politica e nella formazione del processo decisionale tra le diverse istituzioni (temi legati al presidenzialismo/ ruolo dell’esecutivo/ centralità del Parlamento: pensiamo al tema dell’impatto politico che necessariamente dovrà avere il lavoro di questo governo sull’intero sistema che è prevedibile avrà un effetto di riallineamento anche sul piano più specificatamente politico-elettorale), e il concorso ormai evidente di una pluralità di soggetti, elettivi e non elettivi (pensiamo alle Autorità Indipendenti) alla formazione della “governance”: un discorso questo da collegare all’evidente necessità di recupero del concetto di rappresentatività sociale, al riguardo del rapporto con l’evidenziarsi di un inedito intreccio tra le contraddizioni, tra le quali torna a risaltare con grandissimo rilievo quella storica tra capitale e lavoro, nella crisi del neo-liberismo e, di converso, del “pansindacalismo concertativo”.
Su tutto questo domina il conflitto ormai aperto tra Costituzione materiale (stabilizzatasi ormai su di una impronta di tipo presidenzialista) e Costituzione formale, sulla base del cui dettato si è mossa la vicenda del sistema partitico  negli anni tra il 1946 e il 1992, così come abbiamo cercato di descriverla nel corso di questo modesto lavoro.
I partiti rimangono soggetti indispensabili alla democrazia, ma il loro processo di trasformazione dovrebbe essere incanalato nella ricerca di mantenere vive e intatte le aspettative e le prospettive di realizzazione di quegli obiettivi da tempo auspicati dalla maggioranza dell’opinione pubblica, tenendo assieme la prospettiva di una forte capacità di rappresentatività politica, di formazione di governi autorevoli, di presenza di leader di statura europea, di politiche attuate e implementate con rigore e in tempi brevi, sviluppando anche una capacità di giudizio e di sanzione da parte dell’opinione pubblica non vincolate a logiche di pura appartenenza ideologica o di scambio, e garantite da regole eque e trasparenti.
Obiettivi che, in questo momento appaiono talmente lontani quasi da essere considerati utopici, ma che vogliamo pensare ancora praticabili attraverso l’impegno collettivo di molti.
A coloro che intendono ancora impegnarsi in questa direzione abbiamo così pensato di dedicare questo “lavoro della memoria”  cercando di ricostruire come, nella più recente storia d’Italia, la Costituzione Repubblicana sia stata applicata da soggetti come i partiti, dei quali ci piacerebbe ancora una volta sottolineare l’importanza, sconfiggendo tendenze al qualunquismo e alla cosiddetta “antipolitica” che continuano a preoccuparci fortemente.
Ci piacerebbe, insomma, che i partiti tornassero alla definizione coniata da Tocqueville di “espressione degli interessi generali”.
Savona 14 gennaio 2012
Franco Astengo, Giovanni Burzio



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