Di Franco Astengo
Nel suo articolo, pubblicato da “Repubblica” martedì 3 Gennaio, Andrea Manzella disegna il possibile quadro di una “manutenzione costituzionale” destinata a garantire la validità della nostra Carta Fondamentale in relazione ad una crescita del tasso d’identità “garantista”, a fronte della crescita pericolosa del populismo che si sta affacciando in varie parti d’Europa.

Il professor Manzella individua, sotto quest’aspetto, quattro campi: quello delle garanzie istituzionali per il Governo, per il parlamento, per i diritti di libertà, per gli elettori, formulando al proposito proposte piuttosto precise, e conclude con le “garanzie per le garanzie” richiamando la necessità di un’assoluta difesa dell’indipendenza giuridica e morale delle magistrature e al loro interno.
Alla fine del suo lavoro il professor Manzella pone un interrogativo circa la fattibilità concreta di questo lavoro di manutenzione chiedendosi: ci sono i partiti-architetti, i “partiti-operai” davvero “maturi” per cominciare a lavorare per noi?
Sulla base di questo interrogativo che ci pare basilare, al riguardo della fase storica in cui si trova la democrazia italiana, ci piacerebbe poter avviare un dibattito richiamando quali dovrebbero essere le funzioni essenziali che i partiti sono chiamati a svolgere, chiedendo ai loro esponenti di interrogarsi a fondo su questi elementi chiedendo a loro stessi se stiano svolgendo davvero i loro compiti politico-istituzionali o se, invece, stiano muovendosi su tutt’altro terreno rappresentando così un momento di destrutturazione della democrazia e di sostanziale inquinamento nel rapporto tra la società e la politica.
I partiti dovrebbero agire come mediatori tra le istituzioni pubbliche e la società civile, tra lo stato e i cittadini.
Nella dimensione politica essi organizzano le divisioni presenti nella società civile.
In questo senso la prima funzione dei partiti dovrebbe riguardare la strutturazione della domanda: in questo senso i partiti, indispensabili per organizzare la volontà pubblica, operano per una semplificazione della complessità degli interessi individuali, formando l’interesse collettivo.
Essi sono: “ mediatori di idee, attraverso una costante opera di chiarificazione, sistematizzazione e presentazione della teoria del partito”.
I partiti, inoltre, dovrebbero mettere “ordine nel caos” attraverso un processo di strutturazione del voto. In questo senso ne è stata, nuovamente, sottolineata l’indispensabilità, soprattutto al riguardo del processo di identificazione degli elettori, stabilizzandone nel lungo periodo i comportamenti di voti individuali.
La terza importante funzione che i partiti dovrebbero svolgere è quella della “socializzazione politica”, insegnando i cittadini a occuparsi della collettività, modellando atteggiamenti, inculcando valori e distribuendo capacità politiche ai cittadini e alle elite.
Attraverso la selezione delle candidature, i partiti dovrebbero poi operare l’importante funzione di reclutamento dei governanti. In tutte le democrazie, con pochissime eccezioni, le liste elettorali sono presentate da partiti e composte da loro appartenenti, inoltre nella stragrande maggioranza delle democrazie, i governi sono formati da membri del partito.
Ancora, è grazie ai partiti che i cittadini dovrebbero aspirare a un controllo dei governati sui governanti, svolgendo i partiti stessi funzioni di collegamento.
Inoltre ai partiti spetterebbe il compito di rappresentare attori importanti nel processo di formazione delle politiche pubbliche, elaborando programmi, presentandoli agli elettori e cercando coerentemente di metterli in atto.
Ovviamente sono diversi gli approcci teorici sulla base di quali i partiti possono tentare di assolvere a questi loro compiti: un approccio di tipo razionale, di scelta pubblica, identitario.
Soprattutto la costruzione di identità dovrebbe comportare anche la formazione di sentimenti di solidarietà, trasformando il calcolo individuale di costi e benefici, in azioni di solidarietà con altri, facendo sentire il cittadino parte di una comunità nell’essersi riconosciuto come eguale.
In una dimensione assolutamente decisiva i partiti, allo scopo di costruire quest’approccio identitario/solidaristico dovrebbero riconoscersi nelle fratture sociali fondamentali, scegliendo tra di esse attraverso un intreccio tra l’approccio razionale e quello identitario, secondo gli schemi elaborati da Stein Rokkan nel 1970 (traduzione italiana del 1982) e derivanti da un’analisi del processo di costruzione dello Stato nazionale e dello sviluppo del capitalismo industriale, adeguando questo schema ai processi di “congelamento” e di nuovo “allineamento” che i cleavages hanno subito a causa di molteplici ragioni, dall’innovazione tecnologica, alla velocizzazione dei messaggi informativi, dalla necessitata crescita della sensibilità ambientalista, alla globalizzazione degli scambi, in quel quadro che è stato definito di “fratture post-materialiste”.
Questo quadro teorico va ancora interpretato, per quel che riguarda il “caso italiano”, alla luce del disposto dall’art.49 della Costituzione, soprattutto alla luce di un elemento che, a mio giudizio, risulta del tutto decisivo: quello del “cosiddetto metodo democratico”, considerato essenzialmente al riguardo di due punti; il processo di formazione dei gruppi dirigenti, la trasparenza nella rendicontazione dell’enorme finanziamento pubblico che la legge elargisce ai soggetti politici partecipanti alle elezioni (che di conseguenza, anche se riluttanti, non possono fare a meno di definirsi “partiti”).
Sono queste, a mio giudizio, le basi essenziali per aprire, nel Paese, una discussione necessaria e fornire così una risposta adeguata all’interrogativo del professor Manzella: esistono ancora partiti-architetti, capaci di operare cambiamenti necessari in nome dell’interesse generale, partendo da precisi riferimenti sociali e di conseguenza da un altrettanto indispensabile approccio identitario?