Di Franco Astengo
Il lascito più importante sul piano politico-istituzionale che il 2011 passerà al 2012 sarà sicuramente rappresentato dal conflitto, ormai palesemente aperto, tra Costituzione formale e Costituzione materiale.

Per una volta cercheremo di occuparci di questo punto tralasciando, invece, la pur doverosa analisi della crisi economico – finanziaria in atto che, a detta di molti esperti, si aggraverà ancora nell’anno che sta per iniziare colpendo duramente le condizioni di vita dei ceti più deboli.
D’altro canto è difficile, ormai, considerare i temi della struttura politica e dell’assetto istituzionale nella distinzione classica “struttura/sovrastruttura”, gli intrecci, infatti, sono molto più complessi di quanto un tempo non si potesse immaginare.
Il conflitto tra Costituzione formale e Costituzione materiale si è aperto, in Italia, almeno dagli anni’80 quando diventarono di linguaggio comune termini come “decisionismo” e “governabilità” e si procedette verso l’instaurazione di meccanismi di semplificazione nel rapporto tra politica e società, cercando di tagliare quello che era definito un “eccesso di domanda di democrazia”: separazione tra politica e amministrazione, elezione diretta di cariche monocratiche, sistema elettorale maggioritario, personalizzazione della politica.
Tutti fattori che, uniti all’implosione dei grandi partiti di massa avvenuta all’inizio degli anni’90 e con l’entrata in scena di personaggi capaci di governare il Paese incarnando un perfetto conflitto d’interessi, hanno assunto complessivamente i connotati del “presidenzialismo”.
Contemporaneamente l’esasperazione populistica di una rinnovata attualità della frattura “centro/periferia” ha portato, nell’arena politica, il tema della messa in discussione dell’unità del Paese: tema che, accompagnato da un forte e diffuso euroscetticismo appare tornato di grande attualità, almeno nelle intenzioni propagandistiche del partito che ne è stato interprete, pur tra fasi alterne tipiche di coloro che intendono interpretare ruoli di lotta e di governo.
Torniamo però al tema del presidenzialismo che appare, ora più che mai centrale nel conflitto tra Costituzione formale e Costituzione materiale: centrale perché negli ultimi mesi un ruolo di sostanziale forma presidenzialistica è stato esercitato dall’attuale Presidente della Repubblica in una dimensione che non esitiamo a definire come “border-line”, rispetto alla lettera della Costituzione vigente.
Orbene: la situazione poteva ben essere definita come eccezionale e come tale trattata.
Però questa valutazione di stato di emergenza non basta, e anzi può legittimamente inquietare quanti hanno a cuore un certo tipo di qualità della democrazia nel nostro Paese, tanto più che alcuni punti decisivi della vicenda sono avvenuti con un insufficiente tasso di trasparenza.
Esuliamo, in quest’occasione, dal tentativo di approfondire la possibilità che questo esercizio di presidenzialismo sia stato, in una qualche misura, fortemente sollecitato dall’esterno, il che renderebbe ancora più complesso il caso politico- istituzionale dell’Italia ed entriamo nel merito della situazione in atto.
Nella sostanza ci pare di poter riassumere in questo modo: l’ex-presidente del Consiglio è stato ferito proprio da quel meccanismo di tipo presidenzialista che, pure, aveva tante volte richiamato ed agognato, teorizzando il primato dell’uomo solo al comando sul collettivo del dibattito politico.
Alle forze politiche si pone, a questo punto, un interrogativo, che ci piacerebbe fosse esposto in pubblico e dibattuto a fondo: andare avanti con l’idea e la pratica presidenzialista modificando anche formalmente la Costituzione (ed elaborando una nuova legge elettorale in grado di accompagnare sul serio questo tipo di modifica, ponendosi su di un terreno compiutamente maggioritario) oppure tornare, non certo in senso “sonniniano”, allo “Statuto”, cioè alla lettera e alla pratica della Costituzione Repubblicana del ’48, laddove si stabilisce che l’Italia è una repubblica parlamentare?
Personalmente propenderemmo per questa seconda soluzione, tenendo conto che in passato coerentemente c’è capitato di sostenere come l’Italia non avesse bisogno di un Lord Protettore ai tempi di un Berlusconi trionfante e non ci pare, neppure il caso, di richiamare lo stesso ruolo di Lord Protettore adesso quando un’iniziativa di questo tipo è toccata ad un esponente dell’ex-PCI e neppure per il futuro, considerata l’evidente propensione a recitare questo ruolo anche da parte dell’attuale presidente del consiglio che pare proprio avere una grande propensione soggettiva rivolta in quella direzione.
Allora: come “tornare allo Statuto”?
Non è il caso di ricordare, se non per sommi capi, che l'Italia è una Repubblica Democratica per volontà del popolo che ne ha votato la forma di Stato in un Referendum, dopo che per un periodo non breve le forze politiche uscite vittoriose dalla lotta di Liberazione avevano oscillato tra l'idea di affidare al popolo la scelta decisiva oppure di attribuirla all'Assemblea Costituente che sarebbe stata eletta nella stessa data del 2 giugno 1946 (il decreto che fissa il referendum istituzionale porta la data del 10 marzo 1946: l'obiettivo era quello che, una volta sgombrato il capo dal nodo della forma dello stato l'Assemblea Costituente, sulla base del mandato ricevuto dai cittadini, avrebbe potuto dedicarsi completamente alla redazione della nuova Carta Costituzionale).
La scelta referendaria, inoltre, corrispondeva ad un’ulteriore esigenza: quella di completare il processo unitario risorgimentale, considerato nell'analisi gramsciana, in una qualche misura “monco” per la mancata partecipazione delle masse popolari.
Si sanciva così, per via diretta, l'unità del Paese, dopo che – nei tragici mesi trascorsi tra l'8 Settembre ed il 25 aprile-, l’Italia era rimasta divisa.
Si tratta di elementi che vanno sottoposti, ancor oggi, alla riflessione di tutti: in una fase in cui sembrano prevalere queste spinte a forme presidenzialistiche, a punti di mutamento costituzionale che possono far presagire la separazione, se non il disfacimento, dell'unità repubblicana, al sovvertimento del ruolo fondamentale della sovranità popolare, aprendo la strada ad avventure pericolose, forse improbabili, ma i cui segnali non possiamo sottovalutare.
E' mutato, soprattutto, il ruolo del Parlamento, con un passaggio “forte” nella capacità di proposta legislativa nelle mani del Governo, attraverso un uso immotivato dello strumento dei decreti legge (uso immotivato che, ormai, come c’è già capitato di ricordare risale nel tempo fin dai primi anni'80 del secolo scorso: quando cioè si cominciò a parlare di “Grande Riforma” da attuarsi in nome di un cosiddetto “decisionismo”).
Vale allora la pena, dunque recuperare i passaggi fondamentali che, sulla materia del ruolo del Parlamento, furono compiuti in sede di Assemblea Costituente.
La Costituente accettò (in linea con l'esito referendario) l'individuazione antifascista delle responsabilità per le origini della dittatura nell'atteggiamento antiparlamentare della monarchia, sancendo così il definitivo primato delle Camera nel sistema, dando così vita ad una “repubblica parlamentare”.
Concentrando, infatti, nelle due Camere, rese entrambe elettive e pari nelle attribuzioni, i maggiori poteri, la Costituzione Repubblicana pone il Parlamento in una posizione di evidente supremazia rispetto agli altri organi dello Stato.
Il Governo, infatti, appare ad esso sottoposto sul piano formale, sia per il voto di fiducia che lo lega alle Camere in un rapporto di dipendenza politica, sia per il costante esercizio della funzione ispettiva e di controllo sui suoi atti da parte di quelle.
E' anche nella determinazione delle modalità di esercizio della funzione legislativa che la Costituente parve voler impedire ogni pericolo di usurpazione da parte del Governo del potere normativo, memore sia dell'esperienza vissuta in età liberale sia di quella, ben più pesante al riguardo, dei tempi della dittatura fascista.
Tutto questo oggi, ripetiamo, è messo pesantemente in discussione e va ricordato, perché l'osservanza costituzionale è ancora legata a questi fondamentali principi che si sono esplicati nell'articolato della Carta Fondamentale, ricordando ancora come la Costituzione stabilisca che le Camere non possono procedere alla modifica o alla riforma del testo costituzionale senza l'osservanza di un preciso procedimento di revisione (articolo 138); in secondo luogo ha, poi, assoggettato l'attività legislativa ad un sindacato di legittimità costituzionale davanti ad un organo speciale, la Corte Costituzionale, al fine di evitare l'introduzione nell'ordinamento stesso di norme contrarie ai principi essenziali che l'ispirano; in terzo luogo ha fissato il ruolo delle comunità intermedie, in particolare delle Regioni, modificando la tradizione accentratrice dello Stato risorgimentale ma, nello stesso tempo, garantendo l'unità statuale (ed è questo, oltre a quello presidenzialista il punto di maggiore difficoltà che, oggi, forse ci troviamo di fronte nella prospettiva di un’idea federalista che nasconde l'ipotesi di secessione, in una condizione di vera e propria confusione ed in una prospettiva europea, non esistente al momento dello svolgimento dei lavori dell'Assemblea Costituente, che non riesce a superare un grave “deficit democratico”); infine va ricordata l'introduzione del referendum costituzionale e del referendum abrogativo delle leggi approvate dal Parlamento, il primo ad eventuale garanzia popolare contro una revisione della Costituzione che non venisse approvata da una maggioranza parlamentare troppo ampia, il secondo a tutela delle aspirazioni e degli interessi dell'elettorato contro un’attività legislativa ritenuta impopolare, affiancando così alla democrazia rappresentativa caratterizzante il sistema di un istituto di democrazia diretta, stabilendo nel contempo una sorta di controllo popolare sull'operato normativo della classe politica.
Non si trova, com’è noto, in Costituzione un capitolo riguardante le leggi elettorali: ma l'idea di un Parlamento sovrano richiederebbe una legge elettorale tale da consentire il massimo possibile delle espressioni delle culture e delle sensibilità politiche presenti nel Paese; si può ben dire che le modifiche alla legge elettorale avutesi nel 1993 e nel 2005 siano andate in direzione contraria, tentando di affermare il primato della governabilità rispetto a quello del dibattito parlamentare.
Ecco: abbiamo ricordato, forse pedantemente, queste cose al riguardo del ruolo del Parlamento perché si abbia chiaro, all'interno della ventata populistica e antipolitica che stiamo subendo, ciò che di più prezioso vada difeso nell'ambito della nostra democrazia repubblicana e alle quali non si può rispondere con la scorciatoia presidenzialista, ma sanando subito con dichiarazioni ed atti chiari la frattura aperta tra Costituzione formale e Costituzione materiale.