Gaetano Azzariti

Che la legge elet­to­rale fosse inco­sti­tu­zio­nale era fatto noto­rio. La Corte lo aveva già segna­lato in tre diverse pronunce, men­tre ben due pre­si­denti della Con­sulta (prima Franco Gallo, poi Gae­tano Sil­ve­stri) ave­vano anti­ci­pato l’orientamento dei giu­dici costi­tu­zio­nali con chiarezza, in sedi anche ufficiali.  
La deci­sione del giu­dice costi­tu­zio­nale sul por­cel­lum è cer­ta­mente inno­va­tiva sul piano pro­ce­du­rale (avendo superato l’eccezione di inam­missi­bi­lità che aveva sin qui impe­dito il giu­di­zio nel merito) e sarà assai istrut­tivo leggere la moti­va­zione per com­pren­dere quali siano i riflessi isti­tu­zio­nali della deci­sione assunta. Ma nes­suno credo possa one­sta­mente affer­mare che non fosse un esito atteso. Una morte annunciata della legge che ha distorto la rap­pre­sen­tanza e minato il sistema demo­cra­tico per otto anni. Dovremmo, dun­que, tutti aper­ta­mente gioire per­ché la supe­riore lega­lità costi­tu­zio­nale ha vinto.

Molte delle rea­zioni alla deci­sione della Corte costituzio­nale, invece, appa­iono scom­po­ste, impau­rite dalla nuova situa­zione di recu­pe­rata lega­lità costi­tu­zio­nale. Nel com­plesso quasi tutte le dichia­ra­zioni risul­tano impron­tate ad un fon­da­men­tale con­ser­va­to­ri­smo. Un riflesso d’ordine degli attori poli­tici che mostrano una per­si­stente volontà di non abban­do­nare la zat­tera dopo il nau­fra­gio, inca­paci di vedere un nuovo oriz­zonte poli­tico possibile.

Se ci fosse un movi­mento pro­gres­si­sta in que­sto paese (già, se ci fosse!) dovrebbe pro­prio cogliere quest’ultima occa­sione per riflet­tere sugli errori sin qui com­messi, sulle pro­messe man­cate, sul modo per uscire da un ven­ten­nio di disil­lu­sioni. Si dovrebbe riven­di­care una soluzione di con­ti­nuità rispetto ad un pas­sato che ha visto fal­lire il bipo­la­ri­smo, che nep­pure una legge demen­ziale (oltre che inco­sti­tu­zionale) ha potuto assi­cu­rare. È stata l’ossessione gover­ni­sta ad ucci­dere la pos­si­bi­lità di avere governi stabili.

Dinanzi alla pro­gres­siva debo­lezza della rappre­sen­tanza (par­titi sem­pre più ete­rei), l’involuzione cre­scente dei rap­pre­sen­tanti (un ceto poli­tico ine­so­ra­bil­mente auto­re­fe­ren­ziale) e l’accentuarsi della fram­men­ta­zione dei rap­pre­sen­tati (sem­pre più lon­tani dalla poli­tica), si è imma­gi­nato che ci si potesse affidare alle stor­ture del sistema isti­tu­zio­nale. S’è ini­ziato con l’adozione di un sistema elet­to­rale tendenzial­mente mag­gio­ri­ta­rio (il mat­ta­rel­lum) che ha alterato il rap­porto tra voti ed eletti, imma­gi­nando di favo­rire la sta­bi­lità dei governi anche in assenza delle condi­zioni poli­ti­che e sociali neces­sa­rie. L’esito è stato fal­li­men­tare. È pre­ci­pi­tata la cre­di­bi­lità dei partiti, men­tre la dialettica par­la­men­tare è stata annul­lata. S’è tra­sfor­mata la fisio­lo­gica con­trap­po­si­zione tra mag­gio­ranza e oppo­si­zioni in una pato­lo­gica con­flit­tua­lità all’interno delle mag­gio­ranze obbli­gate a gover­nare assieme da pre­ven­tivi accordi eletto­rali. Coa­li­zioni coatte, defi­nite solo per vin­cere le ele­zioni, frutto di tatti­ci­smi che nulla ave­vano a che fare con reali esigenze di governo. L’abbandono della poli­tica è stato il frutto della sta­gione mag­gio­ri­ta­ria ita­liana. È vero che la sinistra — anche quella più radi­cale — è riu­scita nel frat­tempo ad andare al governo, rom­pendo quella con­ven­tio ad esclu­den­dum che ha carat­te­riz­zato la sto­ria ita­liana, ma il costo è stato altissimo. Ci si è dovuti ven­dere l’anima, per­dere il pro­prio popolo, farsi pro­mo­tori di un tat­ti­ci­smo che ha finito per pren­dere la mano. Librati nel vuoto i governi di centro-sinistra hanno perso ogni spinta pro­pul­siva e hanno ceduto costan­te­mente il posto a sem­pre più agguerriti governi di centro-destra. Il supe­ra­mento dell’anomalia ita­liana imma­gi­nata da due tra i più rile­vanti esponenti poli­tici della nostra sto­ria repub­bli­cana era ben altra cosa: la “quarta fase” di Aldo Moro o il “compromesso sto­rico” di Enrico Ber­lin­guer erano pen­sati come espres­sione di una poli­tica auten­tica, non riconduci­bile al domi­nio del tec­ni­ci­smo elettorale.

Nel vuoto della poli­tica nes­suno ha pen­sato che si dovesse real­mente cam­biare. Qual­cuno ha rite­nuto ci si potesse anzi ulte­rior­mente affrancare, ren­dendo del tutto imper­mea­bile il sistema di governo dal paese reale. Se il corpo elet­to­rale, in un cre­scendo di disaf­fe­zione, non ne voleva più sapere del ceto poli­tico, tanto valeva farne a meno. Sarà forse una “por­cata” l’attuale legge elet­to­rale, ma è cer­ta­mente anche espres­sione di una certa idea del potere. Quella stessa che aveva soste­nuto la cul­tura della gover­na­bi­lità per la gover­na­bi­lità, la quale di fronte alle difficoltà del reale, anzi­ché cam­biare e riflet­tere cri­ti­ca­mente sulle ragioni dell’insuccesso, ha prov­ve­duto a rilanciare. Non più solo una distor­sione mag­gio­ri­ta­ria, ma anche l’irrazionalità del pre­mio senza soglia e la rou­lette della distri­bu­zione dei seggi. Inol­tre, davanti alla disaf­fe­zione dell’elettore, s’è rite­nuto che gli si dovesse sot­trarre del tutto la pos­si­bi­lità di scelta dei pro­pri rap­pre­sen­tanti, asse­gnando alle segre­te­rie dei par­titi il com­pito di nomi­nare i par­la­men­tari in nome del corpo elet­to­rale, con il mecca­ni­smo delle liste bloc­care. Potremmo limi­tarci a dire che si è trat­tato sem­pli­ce­mente di una evo­lu­zione nella fede pro­fes­sata da un ceto poli­tico impaz­zito: dalla con­vin­zione che chi veniva eletto era unto dal Signore al distacco defi­ni­tivo del noli me tangere.

Ora, la deci­sione del giu­dice delle leggi riporta con i piedi per terra la discus­sione, avverte che negli ordi­na­menti demo­cra­tici le distorsioni che pos­sono essere impo­ste dall’ingegneria elet­to­rale incon­trano dei limiti. Il primo dei quali è che la costi­tu­zione non per­mette di can­cel­lare il corpo elet­to­rale. La rap­pre­sen­tanza poli­tica deve rispondere alla realtà del corpo elet­to­rale, non può invece solo rispon­dere alle esi­genze del ceto politico.

Sem­plici parole di verità sono quelle che abbiamo letto nel comu­ni­cato della Con­sulta (in attesa di leg­gere le motivazioni per poter giu­di­care le argo­men­ta­zioni giu­ri­di­che), che dovreb­bero essere prese molto sul serio e che potreb­bero segnare una rottura defi­ni­tiva con le distor­sioni del pas­sato. Col­pi­sce invece il ten­ta­tivo di pressoché tutto il ceto poli­tico di ricon­durre que­sta deci­sione sto­rica ad un semplice incidente di percorso.

Com­prendo che per molti degli attuali attori poli­tici fare i conti con le dif­fi­coltà di una poli­tica reale è un pro­blema non pic­colo. Dover ripensare stra­te­gie costruite esclu­si­va­mente per vin­cere, ridu­cendo ad uno la com­po­si­zione plu­rale del corpo sociale, può appa­rire astruso per chi è cre­sciuto nel mito della sem­plifica­zione. È dif­fi­cile accet­tare l’idea che si debba pun­tare a con­qui­stare gli elet­tori più che premi elet­to­rali sem­pre più imme­ri­tati. È per que­sto che si tende a par­lare d’altro.

Per alcuni si tratta solo di usare la sen­tenza della Corte, non ancora depo­si­tata, uni­ca­mente per andare alle elezioni. Non importa con quale legge. A tal fine si sostiene una tesi tanto ardita quanto super­fi­cial­mente pro­po­sta: il par­la­mento non sarebbe più giu­ri­di­ca­mente legit­ti­mato (o almeno non lo sareb­bero i par­la­men­tari eletti con il premio ora dichia­rato inco­sti­tu­zio­nale). Ma è un modo per non affrontare la que­stione reale posta dalla dichia­ra­zione di inco­sti­tu­zio­na­lità della legge elet­to­rale. È abba­stanza evidente che l’attuale par­la­mento è ancora legit­timo dal punto di vista pro­pria­mente giuridico (può dun­que con­ti­nuare ad ope­rare legal­mente in appli­ca­zione del prin­ci­pio tem­pus regit actum), così come appare altret­tanto palese che esso è poli­ti­ca­mente dele­git­ti­mato (un caso clas­sico di legalità vs legit­ti­mità). Se si voles­sero trarre seria­mente delle con­se­guenze ci si dovrebbe atten­dere che que­sto par­la­mento da oggi si dedi­chi quasi esclusivamente (fatta salva la straor­di­na­ria ammi­ni­stra­zione) a discu­tere di una nuova legge elet­to­rale in grado di farci uscire dal pantano cui siamo giunti. Lascia fran­ca­mente assai per­plessi sen­tire invece che il governo si pre­sen­terà dinanzi alle camere per rilanciare il suo pro­gramma di riforme costituzio­nali, subor­di­nando ancora ad esse la modifica del sistema elet­to­rale. Ancora una volta al ser­vi­zio della gover­na­bi­lità e non della rappresentanza.

Secondo altri, poi, saremmo in realtà con­dan­nati a proseguire sulla strada segnata nel 1993 dal refe­ren­dum elet­to­rale. Anche in que­sto caso qual­che pre­ci­sa­zione è d’obbligo. Al netto da ogni con­si­de­ra­zione pro­pria­mente poli­tica e di merito si deve ricor­dare che — come ha ribadito con una pro­nun­cia recente la Corte costitu­zio­nale (sent. 199 del 2012) — il vin­colo refe­ren­da­rio può essere fatto valere pro futuro (seb­bene non sia chiaro sino a quando) al legi­sla­tore solo come vin­colo «di carattere pura­mente nega­tivo». Dun­que, a tutto con­cedere, sarebbe impe­dita l’adozione di un sistema come quello vigente in Ita­lia dal 1948 al 1993. Non certo tutti quei sistemi che garan­ti­scono l’effettività della rap­pre­sen­tanza poli­tica. Alcuni dei quali mai adot­tati in Ita­lia, dun­que cer­ta­mente ben più inno­va­tivi dei sistemi mag­gio­ri­tari riscal­dati di cui si parla insi­sten­te­mente. Così, tanto per dire, un sistema uni­no­mi­nale a turno unico con soglia di sbar­ra­mento al 5 % e riparto pro­por­zio­nale dei seggi costi­tui­rebbe una vera innova­zione in Italia. Non garan­ti­rebbe dal peri­colo di lar­ghe intese. Ma que­sto solo una rina­scita della poli­tica può impe­dirlo. Dovremmo comin­ciare a impa­rare che i sistemi elet­to­rali pos­sono solo favorire que­sta auspi­cata evo­lu­zione, non pos­sono imporre mag­gio­ranza senza popolo.

Un’ultima con­si­de­ra­zione. Di fronte alla cecità della nostra classe poli­tica le con­si­de­ra­zioni qui svolte potreb­bero appa­rire ad alcuni solo delle parole al vento. Ma in fondo noi lo sap­piamo che «the answer is blo­win’ in the wind». Se solo qual­cuno sapesse ascol­tare il soffio del vento.

9.12.2013 - ilmanifesto.it