Lo stravolgimento della Costituzione
Anche il centrodestra, arrivato agonizzante a fine legislatura, si produce in un colpo di coda cercando di riscrivere buona parte della Costituzione. Dopo aver votato e stravolto più volte i suoi stessi progetti nei quattro anni passati, si arriva ad un testo estremamente raffazzonato attraverso il quale cercare di accontentare le diverse anime della coalizione. Su tema del federalismo, ad esempio, dopo aver urlato ai quattro venti che si sarebbe riscritto tutto da capo, il centrodestra lasciò sostanzialmente invariato il confuso sistema di legislazione concorrente ideato dall’Ulivo, limitandosi a riportare alcune materie nella competenza esclusiva dello Stato e specificando alcune competenze esclusive delle Regioni: Non contento per non aver risolto, ma anzi di aver inserito ulteriori elementi di indeterminatezza nell’ambito delle competenze Stato Regioni, il centrodestra pensò bene di mettere mano al sistema di formazione delle leggi, con il passaggio dal Bicameralismo perfetto al Bicameralismo impossibile.
Uno degli aspetti più originali del nuovo meccanismo di formazione delle leggi, infatti, era quello di assegnare al nuovo Senato federale la competenza esclusiva per alcune questioni attinenti alla sfera tipica dell’azione di governo, quali la determinazione dei princìpi fondamentali per le materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni riservate alla legislazione dello Stato. C’era, però, un piccolo problema di coerenza con il complesso della revisione costituzionale. Nella prevista separazione di competenze tra le due Camere, il Senato non votava la fiducia al Governo e, a differenza della Camera dei Deputati, non subiva lo scioglimento in caso di crisi di Governo. Una Camera, quindi, totalmente sganciata dalle sorti del Governo, ma lo stesso in grado di condizionarne l’esistenza avendo competenza esclusiva su alcune materie tipiche dell’azione di governo. Ancora una volta, nel tentativo di far quadrare i conti, si pensò ad una via di uscita.. Il Presidente della Repubblica poteva autorizzare il Premier a presentarsi al Senato per chiedere dei correttivi e, nel caso di non accoglimento delle modifiche, tutto il procedimento sarebbe passato alla Camera dei Deputati per l’approvazione definitiva a maggioranza assoluta. Alla faccia della semplificazione. Ma non solo, ancora una volta si lasciava agli equilibri politici del momento, vedi anche l’intervento del Presidente della Repubblica, la soluzione di un conflitto giuridico legato all’assegnazione costituzionale di competenze. Un altro conflitto giuridico veniva poi affidato a soggetti tipicamente politici, i Presidenti delle Camere e una commissione paritetica costituita da 4 deputati e da 4 senatori, essendo demandata a questi la risoluzione delle controversie circa le eventuali questioni di competenza tra le due Camere. Il pasticcio dei pasticci venne però realizzato nel tentativo di rafforzare i poteri del Premier e per realizzare un sistema rispettoso della volontà (quale?1) espressa dagli elettori.
Probabilmente unico caso al mondo, nella Costituzione italiana vennero inserite le cosiddette norme antiribaltone2, ispirando il tutto al principio dell’autosufficienza della maggioranza uscita vincitrice dalle elezioni. Il potere di scioglimento della Camera dei Deputati è sostanzialmente affidato alle sorti del Capo dell’Esecutivo, in quanto per il nuovo art. 88 il Presidente della Repubblica deve indire nuove elezioni su richiesta del Primo Ministro, nonché in caso di sue dimissioni, di morte o d’impedimento permanente. Unica possibilità per evitare lo scioglimento, la presentazione e l’approvazione di una mozione con la quale si designi un nuovo Primo Ministro. Piccolo particolare per il quale non si può però parlare di sfiducia costruttiva sul modello tedesco: la mozione deve essere approvata con votazione per appello nominale dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera. Al nuovo Premier sarebbe stato sufficiente contare sul sostegno di pochi fedelissimi, un piccolo drappello di deputati non disponibili a votare la “sfiducia costruttiva della sola maggioranza”, per tenere sotto la minaccia dello scioglimento anticipato sia la propria maggioranza che l’intera Camera dei Deputati. Per essere antiribaltonisti sino all’ultimo, infine, all’art. 94 comma 3 era previsto che il Primo ministro dovesse dimettersi qualora una mozione di sfiducia fosse stata respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni. Sarebbe stato cioè sufficiente, per un piccolo numero di deputati della maggioranza uscita vincente dalle elezioni, mettere sotto scacco il Primo Ministro, pena il far venire meno il proprio sostegno. Riassumendo, in conseguenza degli automatismi legati alle norme “antiribaltone” la Camera dei Deputati sarebbe stata costretta a subire qualsiasi ricatto fosse provenuto dal Primo Ministro, come anche da parte di qualche settore minoritario interno alla maggioranza. Un potere di vita o di morte rispetto al quale le nuove regole non consentivano alcuna forma di difesa. Per meglio comprendere la differenza con l’attuale testo costituzionale, si pensi a quanto successo in seguito alle crisi politiche delle maggioranze dei governi Berlusconi nel 1994 e Prodi nel 1998. Con il testo approvato dal centrodestra entrambe le crisi si sarebbero immediatamente risolte con lo scioglimento anticipato delle Camere, senza alcuna possibilità di passaggi tecnici o di diverse soluzioni parlamentari. Da segnalare, infine, l’ennesima formulazione “tappa buchi” in grado di lasciare qualche spiraglio aperto all’inesorabile principio dell’autosufficienza della maggioranza espressa dalle elezioni. All’art. 94 comma 2, infatti, era prevista la possibilità, per il Primo Ministro, di porre la questione di fiducia senza che per la sua approvazione venissero richieste maggioranze particolari e qualificate:
”Il Primo ministro può porre la questione di fiducia e chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo, nei casi previsti dal suo regolamento. La votazione ha luogo per appello nominale. In caso di voto contrario, il Primo ministro si dimette.” La semplicità del comma non si presta ad alcuna ambiguità d’interpretazione. Nel caso di fiducia, anche se votata con il contributo determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni, non vi è alcun obbligo di dimissioni. Non potendo credere ad una svista, anche alla luce di quanto rigorosamente precisato nel comma successivo per una diversa ipotesi di voto di fiducia, è lecito ritenere che qualche dubbio deve aver attraversato le menti degli antiribaltonisti, al punto da aver escogitato una scappatoia per consentire ai Governi di poter sopravvivere di fronte a piccole divisioni interne su alcuni temi. E’ un argomento, questo, sul quale sarà bene riflettere in occasione del Capitolo dedicato al Presidente Napolitano e al referendum costituzionale tradito.
Note al capitolo
1 Gli elettori, secondo i sostenitori della logica maggioritaria, votano per un preciso programma di Governo. La cosa è però più teorica che pratica, come cercò di spiegare il professor Sartori durante i lavori della Commissione Bicamerale presieduta da D’Alema: «Con tutto il rispetto, mi chiedo quante cose voti un povero elettore, quante volontà esprima e come si faccia a sapere quale abbia espresso. Il voto è per un partito, per un programma, quello dell’Ulivo ha cento punti: per quale di questi cento punti ha votato l’elettore? Non esageriamo con la tesi per la quale il popolo ha espresso una certa volontà: ...» 2 Almeno sulla carta non era la prima volta. Presunte norme antiribaltone erano già state adottate con l'introduzione dell'elezione diretta dei Presidenti di Regione. Come però approfondito, ciò che venne realizzato fu soltanto un super presidenzialismo.
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di Franco Ragusa
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Purtroppo, di nuovo in evidenza: Stop Racism