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La sovranità negata

Nel constatare l'esistenza di limiti che riescono a svuotare del tutto anche una presunta espressione di sovranità piena, sulla carta al limite della democrazia diretta, come il Referendum (tesi poc'anzi accennata e sviluppata nell'appendice), vengono spontanee tutta una serie di riflessioni.
Quali strumenti, ad esempio, ha a disposizione il comune mortale per poter contribuire alla formazione di quelli che potrebbero essere – anche soltanto – i temi da discutere?
Può considerarsi effettiva espressione di sovranità il semplice dire o No a questo o quel progetto di riforma o programma di governo già confezionato?
O piuttosto, non sarebbe più logico poter intervenire nei lavori che poi porteranno alla determinazione del progetto finito?
In altre parole: può, addirittura, restringersi il campo dell'analisi soltanto perché là, nel Palazzo, qualcuno ha già deciso su cosa è bene lavorare e su cosa, quindi, i cittadini potranno poi esprimersi?
Evidentemente no, tanto più nell'attuale situazione politica italiana, dove di punto in bianco dei partiti hanno cercato di portare avanti un progetto di mutamento della Forma di Governo – nella direzione ben precisa dell'elezione diretta del Presidente della Repubblica o del Capo dell'Esecutivo – che mai avevano sottoposto al vaglio degli elettori (e con questo si palesa un altro evidente difetto di garanzie della nostra Carta).
Senza mezzi termini, va detto che certe affermazioni e certi strumenti, indicati come idonei per restituire la sovranità al popolo, sono tanti trucchi atti ad impedire all'elettorato di compiere delle scelte in piena consapevolezza – il più delle volte ponendolo nella condizione di dover decidere in stato “emergenziale”.
Con la scusa che non sarà negata al popolo la possibilità di potersi esprimere riguardo al risultato finale, per l'intanto non gli si dà la possibilità di riflettere su più opzioni; restringendo così il campo delle ipotesi a quei soli progetti in grado di garantire la sopravvivenza di un sistema di governo che antepone alla politica il “tecnicismo” dei mercati.
E pensare che l'art. 49 della nostra Costituzione di tutt'altro parla: Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
Ho sempre inteso questo riferimento, “concorrere a determinare la politica nazionale”, come ad un qualcosa che implicasse partecipazione attiva, formativa, propositiva da parte dei cittadini, e non ad un qualcosa che riguardi il semplice votare per dire: “Sì o No ... scelgo questo piuttosto che quello anche se potrebbe non soddisfarmi, di fatto il meno peggio, in quanto non ho altre possibilità per poter articolare le mie intenzioni”.
E da qui parte la riflessione su due altre questioni: il sistema elettorale e la democrazia interna dei partiti.
Ho messo davanti il sistema elettorale per un semplice motivo: potrebbe essere in parte possibile, attraverso i modi di espressione del voto, riuscire a correggere alcune delle distorsioni dei principi di democrazia che normalmente si verificano all'interno dei partiti e che determinano il modo “pilotato” con il quale vengono operate le scelte strategiche e le candidature da sottoporre agli elettori.
Già l'abrogazione della preferenza multipla, ad esempio, aveva lasciato intuire come, per gl'interessi clientelari che potevano svilupparsi all'interno dei partiti (esercitati attraverso la presentazione di candidature fasulle, legate ad una miriade di piccoli interessi locali e clientelari, atte soltanto a portare voti ad altri: al miglior offerente!), fosse divenuto difficile controllare l'articolazione del voto del proprio elettorato che, proprio con la scelta di un unico candidato, poteva riuscire a trovare un momento di espressione che andava oltre la semplice adesione ad un generico programma, potendo in parte indirizzare, preferendo Tizio a Caio (questa volta dei candidati veri e non fasulli, visto che con la preferenza unica ognuno corre per sé e non può portare vantaggi di rilievo ad altri), le strategie del partito votato.
Con l'adesione al maggioritario uninominale sono stati fatti, in tal senso, numerosi passi indietro, essendo l'elettore costretto ad accettare l'unica candidatura espressa dal partito o, peggio ancora, dall'eventuale coalizione nella quale potrebbe essere ancora più difficile riuscire ad identificarsi. Per essere chiari, l'unica possibilità lasciata oggi all'elettore è quella di essere disciplinato e di eseguire alla lettera gli ordini di “scuderia” o... di non votare e quindi di non contare proprio nulla; insomma: prendere o lasciare.
Certo, si potrebbe prendere in esame la possibilità di poter regolamentare la vita interna dei partiti imponendogli il rispetto di un minimo di norme democratiche comuni, e qualcosa in tal senso va sicuramente fatta e al più presto, visti gli eccessi verificatisi negli ultimi tempi, con la nascita di un vero e proprio partito azienda – con tanto di dirigenze politiche direttamente mutuate dai consigli di amministrazione e mai sottoposte al vaglio degli iscritti – o le investiture di candidati a Premier totalmente calate dall'alto; il tutto, è bene ripeterlo, secondo il principio del prendere o lasciare, lasciando beninteso che, grazie al maggioritario, chi non prende non conta.
Ma anche regolamentando la vita interna dei partiti, non verrebbero comunque risolti i problemi per quei cittadini che, non potendo dedicare parte del loro tempo alla politica attiva3, non hanno altri momenti di espressione della loro volontà politica se non quello del voto.
Va quindi data la massima priorità a tutti quegli strumenti elettorali in grado di garantire un esercizio positivo, effettivo della sovranità e che pongano l'intero elettorato nella condizione di non dover sottostare al ricatto del prendere o lasciare.
Che senso ha, infatti, affermare che “la sovranità spetta al popolo” e, al tempo stesso, fare piazza pulita di tutti quei meccanismi istituzionali che dovrebbero garantire l'esercizio di questo diritto?
Bisogna quindi cercare di capovolgere, prima di affrontare le singole questioni, la logica con la quale negli ultimi anni si è cercato di risolvere i problemi riguardanti l'efficienza dell'azione di governo.
C'è un'assuefazione totale, una sorta di pensiero unico che ha cercato e che cerca di normalizzare una realtà concreta, fatta di profondi contrasti sociali, agendo sul terreno dell'ingegneria costituzionale.
Come non vedere la profonda vena antidemocratica che c'è nel voler costringere gli elettori ad aderire al bipartitismo, al bipolarismo?
Una semplificazione delle questioni che è a dir poco sconcertante, perché fondata sull'assunto che il corpo elettorale non può e non deve quindi avere la possibilità di articolarsi in tutte le sue sfumature.
Anzi, meno si articola e meglio è. Il tutto nell'illusione che attraverso questa semplificazione sia possibile realizzare un principio dell'alternanza fondato sulla corrispondenza effettiva tra l'azione di governo ed i programmi passati al vaglio degli elettori.
Un'illusione si è detto, perché è un'illusione credere che gli elettori possano punire una data coalizione al Governo, che non fosse riuscita a risolvere i problemi per la risoluzione dei quali era stata eletta, secondo un principio dell'alternanza che non tiene conto che determinate scelte politiche, determinati contrasti sociali, non possono esprimersi attraverso delle logiche tipicamente interclassiste.
Con quale criterio, infatti, si può pensare che l'elettore eventualmente deluso possa votare chi determinate scelte non le fa, l'altra parte, perché “che bello, c'è l'alternanza!”, è un mistero ancora tutto da scoprire.
Piuttosto, proprio per cercare di determinare quanto più possibile la corrispondenza tra i programmi di governo ed i programmi passati al vaglio degli elettori, bisognerebbe creare le condizioni che permettano, attraverso l'espressione del voto, di mandare a casa quei dirigenti politici che non si fossero mostrati in grado di praticare le soluzioni indicate – o meglio, subite ed accettate – dai propri elettori, senza però dover per questo danneggiare la coalizione di provenienza. In mancanza di ciò, infatti, non si realizza nessun principio, né quello della responsabilità e né quello dell'alternanza, in quanto, in una logica bipolare, è più facile accettare di turarsi il naso, piuttosto che veder prevalere lo schieramento opposto.
Ed è da questo “atteggiamento elettorale”, praticamente dovuto, che scaturisce un meccanismo paradossale. Qualsiasi accordo necessario per vincere, infatti, potrà facilmente essere fatto digerire ai propri elettori; accordi che, inevitabilmente, premieranno in modo eccessivo le richieste delle formazioni di centro.
Un bipolarismo più di facciata che reale, quindi, fondato su un sistema di confronto fra Poli politici schizofrenici: opposti l'uno all'altro sul piano strategico, ma programmaticamente convergenti al centro.

Ma il maggioritario non costituisce, da solo, un veicolo sicuro con il quale determinare un sistema bipolare, fortemente convergente verso le posizioni di centro, efficiente sul piano della stabilità di governo; come del resto ha dimostrato l'esperienza italiana.
Per superare l'irriducibile frammentazione politica4 , che ad esempio ha tenuto sulle spine il Governo Dini – sempre sull'orlo del precipizio a causa della presenza, nell'ambito delle forze elette nella coalizione progressista, di Rifondazione Comunista – potrebbe esserci bisogno di un salto di qualità del principio maggioritario.
Ed ecco allora divenire indispensabile, per il laboratorio politico Italia, determinare, a “scelta” (le virgolette sono d'obbligo): l'elezione diretta dell'Esecutivo o del Capo del Governo contestualmente alla maggioranza parlamentare che lo sosterrà; oppure di un Presidente con funzioni governative affiancato da un Parlamento eletto con un sistema maggioritario, preferibilmente a doppio turno.
È questo salto di qualità dell'affermazione del principio maggioritario, questa esasperazione del bipolarismo, per di più soltanto formale, che deve farci riflettere; di più ed oltre le necessarie considerazioni riguardo ai facili rischi di deriva antidemocratica.
A chi si sforza di dimostrare che è tecnicamente possibile realizzare un presidenzialismo con forti garanzie per la tenuta democratica del sistema, va risposto che è il principio della rappresentanza negata ad ampi settori della società, indissolubilmente implicito in qualsiasi proposta di riforma costituzionale che tenda all'elezione diretta dell'Esecutivo, che non può essere accettato.

Va inoltre rifiutato il modo (il)logico di procedere, di fronte a dei problemi concreti, che non tiene nel giusto conto gli insegnamenti venuti da quest'ultimo periodo della vita politica italiana.
Con una superficialità a dir poco disarmante, si continua ad interpretare a proprio uso e consumo una realtà concreta, che non lascia spazio ad equivoci, chiaramente contraddistinta da una frenetica attività politica fondata su di una mera realizzazione di accordi elettorali che permettano di battere l'avversario; per poi arrivare, soltanto dopo, a discutere dei programmi “possibili”.
La colpa di ciò risiederebbe, per alcuni, nel persistere di una quota proporzionale; per altri, invece, nei ricatti politici che i partiti maggiori sono costretti a subire da parte di quelli minori a causa del turno unico.
Ma un'analisi più approfondita mostra chiaramente come si tratti di valutazioni politiche di comodo e poco legate alla realtà dei fatti. Entrambe le soluzioni proposte, infatti, abolizione della quota proporzionale e doppio turno, preludono soltanto ad un appiattimento dei Poli verso posizioni di centro, indipendentemente dal come questo si realizzi – con 100 o con 2 partiti non importa – purché si determini un sistema di Governo non condizionato, per la risoluzione delle grandi questioni, dalla politica; ponendosi così in un perfetto stato di sudditanza di fronte alle esigenze tecniche dei mercati.
E ciò è tanto più chiaro quanto più si evita di approfondire le questioni, giocando sempre al rialzo, ponendo sempre nuovi obiettivi da raggiungere per portare a compimento la cosiddetta democrazia maggioritaria. Ma che sia proprio la situazione politica italiana, ad indicare come superficiali le giustificazioni addotte da chi si ostina a voler proseguire verso il compimento di una presunta democrazia maggioritaria, non viene preso nella minima considerazione.

Se soltanto si considera che per la quota proporzionale alla Camera il mattarellum prevede la clausola di sbarramento al 4%5, è paradossale dover rilevare che è stato soltanto grazie agli accordi elettorali, stipulati proprio per la quota maggioritaria, se oggi dei partitini con meno del 2% possono occupare dei seggi in Parlamento ed avere avuto, come ai tempi della prima Repubblica, degli incarichi di Governo... ma ce la ricordiamo la composizione del Governo Berlusconi?!
In altre parole, dovrebbe essere ormai chiaro che è per acquisire i pochi voti necessari per vincere che i partiti maggiori sono costrette a doversi “alleare”, prioritariamente, con le forze minori di centro, contribuendo così a tenerle in vita.
Non tutte le forze politiche minori, infatti, hanno le stesse possibilità di ricatto nei confronti delle formazioni maggiori; anzi, alcune di esse, pur se più significative, non ne hanno proprio.
È triste dover constatare che quanto più una forza politica è dotata di qualità trasformistiche, potendosi indistintamente schierare da una parte come dall'altra, tanto più conta nei confronti di chi, con onestà, persegue coerentemente le proprie idee.
Una coalizione al 45%, infatti, che sa di scontrarsi con un'altra coalizione al 40%, potrebbe benissimo permettersi il lusso di perdere una forza politica che rappresenti il 4% dell'elettorato e vincere lo stesso le elezioni, a patto che... a patto che quel 4% non passi dall'altra parte.
Ed è per questa logica che un partito al 7%, come Rifondazione, laddove fosse abolita del tutto la quota proporzionale, potrebbe rischiare di sparire dal panorama politico parlamentare. Al contrario, partiti come la Lega, Patto Segni o cespuglietti vari del centro (che il più delle volte si moltiplicano proprio in prossimità delle elezioni), avendo la possibilità di tenere inchiodati i partiti maggiori a degli accordi elettorali dell'ultima ora, possono facilmente imporre l'elezione di numerosi candidati ed ambire a dei posti di Governo.

Paradossalmente, con il maggioritario si è data più forza proprio a quei partiti che prima, con il proporzionale, potevano sì imporre delle condizioni a chi cercava di formare dei Governi di coalizione, ma soltanto dopo aver conseguito un risultato elettorale minimo e comunque soltanto nel caso si fossero rivelati dei “numeri necessari”.
Oggi s'impongono già da prima, nella fase della scelta dei candidati da far eleggere: oggi bisogna addirittura garantirgli l'elezione!

Con l'introduzione del doppio turno, a differenza di quanto si è soliti credere, mentre la forza di ricatto dei partiti di centro potrebbe rimanere più o meno immutata6, a seconda del tipo di doppio turno adottato, la tendenza sostanziale delle posizioni politiche è comunque praticamente destinata ad accentrarsi maggiormente.
È evidente che per le coalizioni maggiori sarà via via più opportuno e facile elaborare programmi di governo più vicini alle posizioni dell'elettorato di centro – comunque decisivo per vincere le elezioni in un sistema maggioritario – potendo rinunciare, per il primo turno, del consenso elettorale di quei partiti collocati in modo netto e non intercambiabile all'interno delle classiche divisioni politiche fra destra e sinistra, ben sapendo che poi questo consenso potrà essere riassorbito nel secondo turno.

Alla fine di tutte queste considerazioni, credo sia lecito porre una questione di democrazia: con un sistema di rappresentanza politica verso il quale ci stiamo avviando, e che per molti suoi aspetti è già vigente, ha ancora un senso parlare di “libere elezioni”?
O piuttosto, non ci si troviamo di fronte ad una raffinata dittatura (di una minoranza) di centro?

 

Note La sovranità negata

3 Per tanti degnissimi motivi, come quello banalissimo di dover far quadrare i conti; problema di drammatica attualità in una società nella quale i due terzi della popolazione si barcamena tra lo stato di povertà e l'incertezza del futuro.

4 Ma non tanto quella costituita dai soliti partitini di centro dell'uno o del due percento, ai quali il sistema maggioritario riesce ancor meglio a garantire la possibilità di arrivare ad occupare posti di governo; bensì quella più consistente e radicata nella società costituita da realtà che, per proprie caratteristiche antagonistiche, immanenti al sistema di relazioni economico-sociali dei sistemi capitalistici, non si prestano ad essere “normalizzate” in una logica di concertazione dei contrasti sociali che pone le esigenze dell'impresa come prioritarie a tutto. Un'operazione “tecnicista”, chiaramente “sovra-strutturale”, con la quale nascondere ed annullare, nelle forme “rappresentate” della società reale, la presenza d'interessi incompatibili con le “esigenze tecniche” dei mercati.

5 Per il Senato, non essendoci neanche la seconda scheda, la possibilità di acquisire seggi attraverso il riparto proporzionale è normalmente preclusa ben oltre il 4%.
Nelle elezioni del 1994, soltanto in Lombardia fu possibile assegnare un seggio con meno del 4%, e precisamente ai Riformatori di Pannella con il 3,8%, e questo grazie all'alto numero di seggi spettanti a questa Regione, 47, dal quale discende una conseguente alta ripartizione di seggi proporzionali, 12.
In altre circostanze, il 13%, ottenuto da AN in Friuli Venezia Giulia, o il 9,3%, sempre ottenuto da AN in Liguria, non sono stati sufficienti per ottenere dei seggi con il riparto proporzionale (fonte dei dati: Avvenimenti del 28/2/96).

6 Gli accordi di desistenza non sono infatti una peculiarità esclusiva dei sistemi a turno unico; anzi, nel doppio turno, con i risultati della possibile vittoria o sconfitta tra le mani, è più facile essere costretti a dover cedere ai ricatti.